Meno Stato vuol dire, anche, meno privato. È un cane che si morde la coda.
Autore: Gilberto Trombetta
Perché il lavoro, senza lo Stato, soprattutto in una crisi decennale di domanda come quella che stiamo attraversando, non lo crea e non lo può creare il privato. Anzi lo perde anche lui, il lavoro. Meno Stato vuol dire, per esempio, che il pubblico non spende. Nonostante ci manchino milioni di dipendenti pubblici ed infrastrutture essenziali, soprattutto nel Sud Italia. Nonostante ci siano monopoli naturali ed aziende strategiche che aspettano solo di essere nazionalizzati. Non solo non spende, ma sottrae risorse ai cittadini. E lo fa da circa 30 anni: si chiama avanzo primario.
Così succede che dopo 27 anni di avanzo primario (-724 miliardi di euro tra il 1995 e il 2018), di contributi netti all’Unione Europea (tutti soldi sottratti a famiglie e imprese italiane), grazie alla libera circolazione di merci, capitali e lavoro e ai paradisi fiscali sparsi in tutta l’Unione Europea (la Mecca mondiale dell’elusione, altro che idraulici, baristi e lotta al contante), le famiglie italiane abbiano dovuto tagliare i consumi, rispetto al 2007, per un importo pari a 21,5 miliardi di euro.
Analizzando i dati dei consumi delle famiglie scorporati per area geografica, com’era purtroppo prevedibile, il Sud risulta quella colpita più duramente.
Dal 2007 al 2018 le famiglie meridionali hanno dovuto tagliare la spesa mensile media
di 131 euro (mediamente di 1.572 euro all’anno), quelle del Nord di 78 euro (936 euro all’anno) e quelle del Centro di 31 euro (372 euro all’anno). Guardando i dati per tipologia di merce, a essere maggiormente colpiti dai tagli imposti alle famiglie italiane, sono stati gli acquisti di beni non durevoli (medicinali, prodotti di cura della persona, detergenti per la casa, ecc…) che sono crollati del 13,6%, di quelli semi-durevoli (abbigliamento, calzature, libri, ecc…) ridotti del 4,5% e di quelli durevoli (auto, articoli di arredamento, elettrodomestici, ecc…) calati del 2,8%.
E chi lo paga il conto del “meno Stato“, oltre ai lavoratori, quindi a una buona parte delle famiglie italiane? A pagare il conto sono stati anche artigiani e i piccoli negozianti. Cioè altre famiglie di lavoratori.
Tra il settembre 2009 e lo stesso mese di quest’anno, infatti, le aziende/botteghe artigiane attive sono diminuite di 178.500 unità (-12,1%), mentre i piccoli negozi sono scesi di quasi 29.500 unità (-3,8%). Complessivamente abbiamo perso più di 200 mila negozi di vicinato in 10 anni. Dal 2007, anno pre-crisi, al 2018, il valore delle vendite al dettaglio, che costituiscono il 70% circa del totale dei consumi delle famiglie, nel commercio di prossimità è infatti crollato del 14,5%. Nella grande distribuzione, invece, è salito del 6,4%.
Un dato che non dovrebbe sorprendere, essendo i due fenomeni legati.
Come ci aveva raccontato Serge Latouche in “Breve trattato sulla decrescita serena“. “Un posto di lavoro precario creato nella grande distribuzione distrugge 5 posti di lavoro stabili nel commercio di prossimità. Secondo l’Institut National de la Statistique et des études économiques, la diffusione dei grandi magazzini in Francia ha fatto scomparire il 17% delle panetterie, l’84% delle salumerie, il 43% dei negozi di casalinghi.
Quel che è scomparso è una parte importante della sostanza stessa della vita locale, con il corrispondente disfacimento del tessuto sociale”. Questi sono i risultati del meno Stato e del più mercato. Cioè della libera circolazione di merci, capitali e lavoro che è alla base del neoliberismo e dell’architettura europea.
Revisione ed impostazione grafica: Lorenzo Franzoni
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