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Uscire dall’euro per salvare l’Europa: ora lo dicono anche gli europeisti

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“E’ gran tempo che Macron dica ai francesi, ai tedeschi, e a tutti gli europei che il futuro del progetto europeo esige l’uscita dall’euro”.

di Maurizio Blondet

Questo il punto centrale di un articolo dal titolo: “Zona euro: Macron ha bisogno del coraggio di De Gaulle”.

L’autore è Stefan Kawalec, un economista e politico polacco che è stato vice-ministro delle Finanze a Varsavia dal ’91 al ’94: il co-autore del “Piano Balcerowic”, la “terapia-d’urto” che ha fatto passare la Polonia dal sistema socialista a quello privatista di mercato con tutte le conseguenze sociali immaginabili. E’ dunque un “super-europeista”, ideologicamente ferreo.

Eppure adesso sta implorando Macron, in quanto capo del secondo Stato più forte e influente nella Unione europea, di convincere la Germania di uscire per prima dall’euro, nel quadro di un ritorno ordinato alle monete nazionali. Dopo aver rapidamente dimostrato che l’euro ormai rallenta tutte le economie e penalizza senza speranza di ripresa le regioni più sfavorite (Germania Est e Italia del Sud), Kawalec continua: “Ci sono molti giustificati timori giustificati legati ad un’esplosione dell’euro, ma esiste una strategia”.

Elaborata da diversi economisti della UE, che “hanno firmato un Manifesto per la Solidarietà Europea”, che appunto consiglia “come prima tappa l’uscita dei paesi più competitivi, anzitutto la Germania”; il che “scongiurerebbe il panico bancario nei paesi meno competitivi, se fossero loro i primi a uscire.

La strategia di uscita ordinata e non traumatica

è descritta, dice, nel saggio “The Economic Consequences of the Euro and the Safest Escape Plan”, scritto da lui stesso, S. Kawalec, E. Pytlarczyk, K. Kamiński.

In fondo quello che Kawalec scrive è meno stupefacente del “dove” ha potuto dirlo: su L’Opinion, periodico macroniano per eccellenza. E non è il solo segnale che di un ripensamento negli ambienti europeisti per ideologia o perché ne sono favoriti.

“L’ euro sta distruggendo l’Europa

la nostra prosperità … e le nostre banche” – E stavolta l’acuto è lanciato da due economisti tedeschi che sono anche operatori sui mercati finanziari, Marc Friedrich e Mathias Weik. “E’ giunto il momento di chiudere l’euro”, proclama il titolo del loro articolo su Focus.

Se la prendono ovviamente con le ultime decisioni di Draghi, i tassi d’interesse negativi e l’ultimo quantitative easing inutile. “La BCE manterrà bassi i tassi di interesse per molti anni”, scrivono:

È il tentativo disperato di mantenere in vita l’euro con denaro a basso prezzo. È ovvio che la valuta comune non funziona. È tempo di pensare alla fine prima che tutto peggiori.

Le conseguenze della politica della BCE sono serie, strillano i due. Chi risparmia viene punito. Chiunque farà debiti sarà premiato. Se le persone in Germania iniziano effettivamente a consumare non solo i loro risparmi, ma anche per fare debiti e quindi non coprire più per la vecchiaia, allora ci verrà un’ondata di povertà, che supera ogni immaginazione. Chiunque accetti questo per mantenere in vita l’euro condannato non è solo inimmaginabilmente irresponsabile, ma anche altamente antisociale.

Dopo questa prospettiva catastrofica

per i risparmiatori tedeschi, i due ammettono:

L’euro separa l’Europa, piuttosto che unificarla. L’euro è troppo debole per la Germania e troppo forte per i paesi dell’Europa meridionale. Affinché i paesi dell’Europa meridionale possano riguadagnare competitività, dovrebbero svalutare le proprie monete; impossibile nell’interesse dell’Eurozona. Di conseguenza, i paesi dell’Europa meridionale non saranno mai in grado di compiere progressi economici sotto l’euro, qualunque massa di denaro venga trasferita dal Nord al Sud Europa.

Non è vero quello che dice la propaganda europeista, che l’euro è una valuta stabile. “Dalla sua introduzione, ha già perso il 30 percento del suo potere d’acquisto a causa dei bassi tassi”.

Le nostre previsioni: Non appena la recessione nella zona euro avrà pieno effetto, i tassi di interesse continueranno a essere notevolmente ridotti. I programmi di acquisto sono aumentati drasticamente le passività Target2 della Germania strapperanno il segno di un trilione. Sempre più banche in Europa scompariranno dalla scena e le grandi banche europee perderanno completamente il collegamento con la cima del mondo. Le bolle del mercato finanziario continuano gonfiare: azioni, obbligazioni, ETF e proprietà immobiliari.

Conclusione (rullo di tamburi):

“Il Dexit è meno costoso a lungo termine”. Comunque, “L’euro non sopravviverà a una seconda recessione e la BCE non sarà in grado di assorbirla. Quando finalmente nei politici prevarrà la consapevolezza che un Dexit dall’Eurozona sarà sicuramente la soluzione a lungo termine meno costosa? Ora è il momento di gestire l’euro in modo controllato, perché se l’euro collassa senza controllo, i costi, sia sociali che monetari, saranno molte volte più alti”.

Sembra quasi che i due si siano consultai col polacco. Fatto sta che da vari segni, si ha l’impressione che gli economisti tedeschi preparino i media e l’opinione pubblica alla fine dell’euro.

“E basta: chi vuole uscire dalla UE deve poterlo fare”, sbotta Hans Werner Sinn, l’ex presidente dell’IFO, spezzando la sua influente lancia a favore della Brexit – e contro Bruxelles, che sta rendendo l’uscita del Regno Unito un processo punitivo, per dare una lezione ad altri tentati di uscire.

Thomas Mayer, fondatore del Flossbach von Storch Research Institute, spiega con perfetta onestà intellettuale perché l’Italia, non potendo né svalutare né fare debito, è condannata nell’euro all’estinzione – o alla rivolta populista,

Un altro economista importante

Achim Trueger, membro del Consiglio tedesco di esperti economici, e sul Welt (mainstream), spara a zero sulla politica di “zero nero” – il bilancio in pareggio – del governo Merkel:

Il freno al debito è una politica sbagliata e falsa, che poteva andare solo col bel tempo. Adesso arriva la recessione. L’unione monetaria non è ben preparata per la prossima crisi, ed è proprio in questa situazione che abbiamo un paese con l’Italia in cui la situazione politica non è stabile. Solo la politica di bilancio – attraverso ulteriori spese statali o tagli alle tasse – può sostenere l’economia. Se questo fallisce a causa del disaccordo politico, una crisi potrebbe intensificarsi – e quindi la zona euro e quindi la stessa valuta comune sono in pericolo.

Il capitalismo rentier sta distruggendo la democrazia

(e lo scrive il Financial Times). C’è di più. Anche in Usa e Regno Unito, ripensamenti critici del capitalismo terminale imperante stanno avendo luogo nei templi stessi dell’ideologia del mercato globale: la scuola di Chicago, il Financial Times…“Questo capitalismo truccato sta distruggendo la democrazia liberale”, ha scritto proprio sul Financial Times nientemeno che Martin Wolf, il suo massimo guru del liberismo Globale. Che cosa è il capitalismo col trucco? “E’ il capitalismo rentier”.

Quello dei Benetton in Italia, padroni delle autostrade ex pubbliche. Quello delle mega-imprese che sono diventate monopoli privati, e perciò hanno eliminato ogni concorrenza, e “fanno il prezzo” dei servizi che offrono, estraendo una “rendita” indebita, sempre più grande.

Negli ultimi quarant’anni, esordisce Wolf, proprio negli Stati Uniti (avanguardia del liberismo) abbiamo visto verificarsi l’empia trinità: grandi shock finanziari, aumento delle disuguaglianze e rallentamento della produttività”.

La gente – gli elettori si alienano da questo capitalismo

perché dà sempre meno alla gente comune. “Fra il 1948 e il 1973, il reddito familiare reale mediano negli Stati Uniti è aumentato del 3% ogni anno. A quel ritmo, c’era una probabilità del 96% che un figlio avesse un reddito più alto rispetto ai suoi genitori. Dal 1973, la famiglia mediana ha visto crescere il proprio reddito reale solo dello 0,4 per cento all’anno. . . Di conseguenza, il 28% dei bambini ha un reddito inferiore rispetto ai loro genitori “.

Quanto al calo della produttività, i media “europeisti” ci fanno credere che è un problema dell’Italia e degli italiani. Martin Wolf mostra invece che tutti i paesi sviluppati, dalla Germania al Giappone, dal Regno Unito agli Usa, la produttività è calata: e in modo imponente dal 2010.

Le delocalizzazioni, e l’immigrazione che diminuisce i salari reali (a fa scadere la qualità del lavoro) c’entrano, ma fino a un certo punto. E’ quasi stupefacente leggere sul Financial Times chi viene additato come colpevole:

La finanza ha un ruolo chiave. Il livello di sviluppo finanziario è buono solo fino a un certo punto, dopo di che diventa un freno alla crescita e che un settore finanziario in rapida crescita è dannoso per crescita aggregata della produttività.

Si legge poi questa inaudita espressione:

La finanza tende a metastatizzare come un cancro….la capacità del settore finanziario di creare credito e denaro finisce per finanziare le proprie attività, redditi e (spesso illusori) profitti”. La dittatura della finanza sull’economia reale produce “una diversione di risorse umane di talento in direzioni improduttive e inutili.

Questo capitalismo globale, finanziario, è truccato anche in un altro senso: elude ed evade le tasse nei paesi sviluppati, ponendo la loro sede fittizia nei paradisi fiscali.

Le società statunitensi dichiarano un profitto sette volte maggiore nei piccoli paradisi fiscali (Bermuda, Caraibi britannici, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Singapore e Svizzera) rispetto a sei grandi economie (Cina, Francia, Germania , India, Italia e Giappone). Questo è ridicolo”.

Dopo aver predicato per cinquant’anni la “deregulation” e il capitalismo senza confini, ora il Tempio comincia ad ammettere che il capitalismo va regolato, che – forse – occorre ritornare alla legislazione anti-trust che negli anni ’30 obbligò le mega-corporations diventate monopoli privati, a spezzarsi in imprese più piccole.

E la Chicago School cambia dottrina

“Abbiamo bisogno di un’economia capitalista dinamica che dia a tutti la convinzione giustificata di poter condividere i benefici. Ciò che sembriamo sempre più avere invece è un capitalismo instabile, un indebolimento della concorrenza, una debole crescita della produttività, un’elevata disuguaglianza e, non a caso, una democrazia sempre più degradata”, conclude Wolf.

Ma ancor più stupefacente è quel che è avvenuto alla Università di Chicago: il supremo tempio del dogma liberista assoluto, monetario e globale, e quindi “la culla intellettuale del consenso anti-trust degli ultimi 4 decenni” – come ha scritto il New York Times: la scuola che ha sempre difeso la libertà del capitale e la sua “efficienza” , anche gettando l’anatema (della sua facoltà di legge) contro ogni pulsione a criticare i monopoli privati, tipo Google, Amazon, Facebook .

Ebbene: quale sensazione, durante la convocazione degli studenti nel giugno scorso, sentire “uno dei principali economisti della scuola”, incaricato del saluto, lanciare “un grido di battaglia contro i monopoli tecnologici”, i giganti digitali, che sono più potenti degli Stati, dei legislatori, e che dispongono di troppi dati su ciascuno di noi e se li vendono…Bisogna regolamentare, bisogna varare nuove leggi antitrust, ha detto sostanzialmente il professore. “Ciò che ha reso sorprendente il discorso entusiasmante non è stato quello che ha detto, ma dove lo ha detto”, ha commentato elettrizzato il giornalista del New York Times: una violazione del dogma nel Vaticano del liberismo.

Ad aumentare il nostro stupore come italiani

è apprendere che quell’economista “dei più importanti” che ha violato il dogma, altri non è che Luigi Zingales, padovano, 52 anni. Colui che si mise con Oscar Giannino nel partito “Fare per fermare il Declino” per sostenere Mario Monti – attraverso il più assoluto liberismo imposto sulle nostre povere teste – e che poi sparò su Oscar Giannino rivelando che la pretesa del giornalista di essere un laureato della Chicago Business School era una delle sue menzogne.

Oggi, sarà bene che Giannino venga avvertito: la Scuola di Chicago sta propiziando il “cambio di paradigma” sul capitalismo e la sua re-regolamentazione. Fra poco questo pensiero verrà di moda anche da noi . Il liberismo alla Giannino non si porta più.

Ed il nostro governo rischia di essere l’ultimo a difendere l’euro.

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