Il 2 giugno è un giorno strano. Oggi, infatti, ricorre sia l’anniversario della nascita della Repubblica, nel 1946, che quello di uno dei peggiori attentati alla vita della Repubblica, avvenuto il 2 giugno del 1992.
di Thomas Fazi
Quel giorno i massimi vertici dell’economia italiana – il presidente della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, il ministro del bilancio Beniamino Andreatta (i due che dieci anni prima avevano siglato il tragico “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro), il direttore generale del Tesoro Mario Draghi, i vertici dell’Eni, dell’IRI, delle grandi banche pubbliche e delle varie aziende e partecipate di Stato – si incontrarono al largo di Civitavecchia sul panfilo della regina Elisabetta, il “Britannia”, con la crème de la crème della grande finanza internazionale per pianificare a tavolino il saccheggio dell’economia italiana, in primis attraverso la privatizzazione e la liquidazione, a prezzi di saldo, degli straordinari patrimoni industriali e bancari dell’Italia, che avevano fatto la fortuna del nostro paese nel dopoguerra.
All’inizio degli anni Novanta, infatti, la quasi totalità del settore bancario e oltre un terzo delle imprese di maggiore dimensione in Italia erano ancora in mano pubblica: un’eresia intollerabile nel momento in cui si andava imponendo in tutto l’Occidente il dogma del liberismo e del mercatismo selvaggio. L’Italia aveva bisogno di una “terapia shock”, alla sudamericana, per essere ricondotta sulla retta via.
Per nostra sfortuna
(ma probabilmente non è un caso) questo momento storico coincise con il “golpe bianco” di Tangentopoli, che poco prima aveva spazzato via praticamente tutti i partiti della prima Repubblica, spianando così la strada alla peggiore classe politica che questo paese abbia mai avuto, ovverosia a quegli esponenti dell’establishment italiano – Ciampi, Draghi, Amato, Andreatta, solo per citarne alcuni, che a loro volta erano espressione di uno “Stato nello Stato”, comprendente anche grandi aziende economiche ed editoriali, figure tecniche, movimenti della società civile, intellettuali e pezzi della magistratura – che da tempo sognavano di liquidare una volta per tutte il modello Stato-centrico italiano per mezzo del vincolo europeo, anche al costo di ridurre l’Italia a colonia dei centri di comando europei.
Pochi mesi prima dell’incontro del “Britannia”, infatti, era stato siglato il famigerato trattato di Maastricht, che impegnava l’Italia a una drastica politica di austerità fiscale e di abbattimento del debito pubblico. Ed è proprio facendo appello alle pressioni europee in tal senso che i privatizzatori nostrani giustificarono lo smantellamento dell’apparato industriale e di pianificazione pubblico italiano.
Come avrebbe detto poi Romano Prodi
artefice dello smantellamento dell’IRI in qualità di presidente dello stesso nel 1993-4:
Erano obblighi europei! Mi [era] stato dato il compito da Ciampi che privatizzare era un compito obbligatorio per tutti i nostri riferimenti europei.
In questa frase di Prodi è contenuto tutto il senso del vincolo esterno europeo, che ha agito (e continua ad agire) sia come pressione reale per riformare l’economia in senso neoliberale, sia come giustificazione per le élite nazionali, che a loro volta auspicavano quelle stesse riforme ma erano consapevoli che non sarebbero mai riusciti ad ottenerle «per le vie ordinarie del governo e del Parlamento», come disse Guido Carli, ministro del Tesoro al tempo della firma del trattato di Maastricht, cioè senza una pressione esterna che gli permettesse di aggirare i normali canali democratici.
È così che in pochi anni venne svenduto un patrimonio inestimabile
accumulato in quasi mezzo secolo di politiche pubbliche, privando l’Italia di una delle principali basi materiali della sua Costituzione: ovverosia ciò che fino a quel momento aveva permesso allo Stato di perseguire (con tutti i limiti del caso) politiche di sviluppo industriale, di orientamento dei consumi, di innovazione strategica, di coesione territoriale, di salvaguardia dell’occupazione. Non a caso è proprio in quegli anni che inizia il lungo declino dell’Italia, a cui verrà dato il colpo di grazia con l’ingresso nell’euro.
A distanza di quasi trent’anni da quel tragico 2 giugno del 1992, sarebbe il caso di chiudere una volta per tutte questo triste capitolo della storia italiana, restituendo al popolo ciò che è suo: dai monopoli naturali come la rete autostradale e le reti energetiche – che negli anni sono stati smembrati e consegnati nelle mani di spregiudicati “prenditori”, che ne hanno ricavato rendite e profitti a scapito della qualità e dei costi dei servizi, e dunque a scapito di tutta la collettività – alle banche.
Fino ad arrivare al bene pubblico per eccellenza: la moneta.
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