Le accuse mosse all’ex Presidente ci portano a riflettere sul protocollo imperialista nel mondo islamico e sul nostro incomprensibile odio per l’interesse nazionale.
E dire che nell’ultima settimana qualche bizzarro tassello nel nostro imperituro processo di indottrinamento sulle dinamiche che governano la politica estera, lo avevamo già immagazzinato. Aver scoperto che per perpetrare massacri in Medio Oriente e passare quasi del tutto inosservati di fronte alla nostra stampa lassista, ipocrita e doppiopesista serva un certo phisique du role, è già una nozione di rilievo.
Si poteva forse immaginare che le truppe di un esercito X, mettendo in atto un’invasione militare in piena regola, potessero sconfinare in uno stato straniero Y, collaborare con le milizie jihadiste dei “ribelli moderati” e conquistare una città del suddetto stato Y che secondo dati ufficiali contava la bellezza di 350.000 abitanti?
Ma soprattutto, si poteva forse immaginare che, allo stesso tempo, tentare la riconquista di una sacca di resistenza islamista (che da 5 anni lancia colpi di mortaio sulla tua capitale ed utilizza la popolazione civile in ostaggio come scudo umano) potesse essere fonte di indignazione planetaria nei confronti del, purtuttavia, legittimo presidente dello stato Y? In linea teorica no, ma è probabile che uno sguardo glaciale, un fisico imponente e dei baffetti autoritari conferiscano maggiore credibilità, rispetto alla vocazione ortodontista ed alla notevole somiglianza con Fabio Fazio.
Spunti di riflessione
Grazie allo scandalo sui finanziamenti libici di Sarkozy, emerso nella giornata di ieri, il nostro bagaglio di conoscenze ha subito un considerevole ampliamento ed altre nozioni, seppur più prevedibili e meno eclatanti, possono essere archiviate. Il riferimento va sia al protocollo (ormai brevettato e certificato) seguito dalla politica e dalla stampa nella narrazione delle guerre umanitarie nel mondo islamico, sia alla conferma di un’ormai tristemente acclarata idiosincrasia verso il concetto di interesse nazionale.
Il protocollo occidentale:
1) La denuncia politica
Il modus operandi ha di fatto assunto, per precisione e puntualità, i connotati degni della peggiore burocrazia amministrativa e si divide sostanzialmente in tre noiosissimi passaggi. Dapprima, dal cilindro del circo politico internazionale salta fuori un coniglio bianco che sensibilizza il mondo contro questo o quell’altro Rais dispotico ed autoritario. Successivamente commuove l’opinione pubblica sciorinando imperdonabili violazioni dei diritti umani (talvolta presunte, talvolta vere, ma con uno spirito di osservazione a scoppio decisamente ritardato) ed il più delle volte chiosa asserendo di essere in possesso di prove schiaccianti circa l’utilizzo di armi chimiche. Ecco asserisce di possederle, naturalmente senza produrle o basando la momentanea produzione esclusivamente su testimonianze e fonti antigovernative.
2) L’incondizionato appoggio mediatico
Dopodiché, la stampa si compatta in un coro unanime a reti unificate, sfornando un’informazione parapropagandistica volta a confermare la bontà di queste missioni umanitarie (sempre guerre sono, ma la semantica vuole la sua parte), che andranno a liberare una popolazione esausta dal giogo di una tirannia sanguinaria.
L’Occidente produrrà un clima di pace, progresso, integrazione e prosperità, una società paradisiaca, una nuova El Dorado degna di una delle pubblicità della Benetton dei primi anni ’90.
Naturalmente, anche in questo caso viene rappresentato un quadro parziale, sostenuto da fonti partigiane ed artefatte, con una ricerca totalmente antitetica al corretto esempio di informazione fondata sul pluralismo.
Per chiunque osi mettere in dubbio la bontà dell’operazione militare, di produrre un accenno di controinformazione sulle reali condizioni degli indigeni o di alternare fonti di diversa natura con quelle della stampa “istituzionale”, operano d’ufficio tutta una serie di sanzioni fondate sull’elitarismo mediatico.
Si viene emarginati dai radar del mondo dell’informazione, si utilizzano sgradevoli epiteti che assolvono la funzione di un marchio d’infamia contro coloro che non appoggiano la causa, oppure si viene più semplicemente apostrofati come dei poveri complottisti paranoici e rincoglioniti.
3) Le scuse
Infine, a distanza di anni, dopo un lungo processo di occupazione e destabilizzazione di stati sovrani, di desertificazione delle loro attività economiche ed industriali, di governi provvisori in cui impazzano bande armate ed anarchia (che finiscono sistematicamente per far rimpiangere il regime precedente, in quanto garanzia di un apparato statale) e soprattutto, dopo migliaia di vittime civili ed innocenti, i nodi vengono al pettine.
I politici chiedono scusa per le invasioni che hanno reso il terreno fertile per la nascita del terrorismo, ammettono di non avere le prove che avevano tanto strombazzato, oppure vengono pizzicati con le mani nella marmellata dalla magistratura, a causa di rapporti poco chiari con lo stesso Rais che hanno successivamente destituito.
E i pennivendoli che all’epoca scodinzolavano al loro guinzaglio? Si limitano a riportare la notizia, ovviamente senza l’ombra di un mea culpa, ma concedendo la proverbiale vittoria di Pirro ai colleghi precedentemente dileggiati per il proprio dissenso di fronte alla narrazione dominante: pressappoco un “ve l’avevo detto”.
Una conquista confortante per la madre bisbetica nel momento in cui il figlio decide di divorziare dalla tanto vituperata suocera, non certo di fronte a centinaia di migliaia di morti.
Di seguito un breve bilancio per testimoniare la religiosa osservazione del rigido protocollo occidentale.
Afghanistan
Nel 2001, in seguito agli attentati dell’11 Settembre, gli Stati Uniti decidono di invadere il paese per stanare Bin Laden, debellare al Qaeda e rovesciare il sanguinario governo dei talebani. Qualcuno fa notare gli interessi degli USA sulle piantagioni di papavero, che i talebani poco più di un decennio prima erano stati loro alleati negli stessi territori contro l’Unione Sovietica e che nell’organizzazione qaedista, figurano miliziani di ogni nazionalità possibile tranne quella afghana: ovviamente tutti derisi e spernacchiati allegramente.
Oggi, dopo diciassette anni, l’Afghanistan è una polveriera con un governo fantoccio, continui attentati che non suscitano sgomento nei nostri cuoricini glamour europei ed i talebani che hanno sotterrato l’ascia di guerra con l’Isis (due organizzazioni sì sunnite, ma antitetiche: la prima combatte per la liberazione nazionale dall’oppressore, l’altra ha un disegno egemonico su tutto il mondo islamico), pur di combattere l’invasore americano. Ah, come se non bastasse, questo inutile giochino costa ogni anno circa 500 milioni di euro al governo italiano.
Iraq
Nel 2003 il mondo intero ha potuto assistere alla commovente scampanellata di Colin Powell presso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, diventata icona incontrastata del “c’avemo le prove”. La Gran Bretagna, ça va sans dire, segue a ruota gli americani tanto nella teoria dell’arsenale chimico iracheno (già sconfessata dai primi rapporti sul campo del 2004), quanto nell’invasione che condurrà all’impiccagione di Saddam, al termine di un processo molto naif e contrassegnato dalle forti pressioni dell’amministrazione a stelle e strisce.
Le scene di giubilo per l’abbattimento del carnefice baathista stridono con le reazioni contemporanee degli stessi protagonisti. Nel 2015, dodici anni e 200mila vittime dopo, l’alfiere della pace Tony Blair dichiarò con grande serenità “mi scuso, il programma di riarmo non esisteva nella forma che noi avevamo pensato… Mi scuso per gli errori commessi nella pianificazione, e certamente per il nostro errore nel capire cosa sarebbe accaduto una volta che avessimo rimosso il regime.” Parafrasato: scusate per l’Isis, ma quei dossier fondati sulle testimonianze di dissidenti, esuli ed avversari politici di Saddam pareva molto convincente.
Siria
Stessa storia, stesso posto, stesso bar intonava Max Pezzali a metà degli anni ‘90. Nel 2011, la litania ricomincia e nei radar imperialisti compare l’ultimo grande alleato mediorientale dell’Iran. Torture, brutalità, mancato rispetto dei diritti civili e naturalmente un manipolo di ribelli onesti che bramavano solo un futuro di pace e democrazia per la Siria, ma che per uno strano scherzo del destino operano, ancora oggi, negli stessi territori in cui Isis ed al-Nusra tagliano gole ed ardono vivi sciiti, cristiani ed altri presunti infedeli.
Anche in questo caso, il grande evergreen delle armi chimiche non si è sognato di mancare alla festa, fornendo a Trump il pretesto per l’aggressione missilistica del 6 Aprile scorso. Poco importa che qualche settimana fa, il Segretario della Difesa USA James Mattis, abbia affermato “le prove non ci sono, ma le stiamo cercando”. Chi cerca trova, si sa.
Libia
Dulcis in fundo e non certo per importanza, ma solo per motivi cronologici dettati dalla freschezza degli ultimi scoop. Nel 2011, una coalizione militare occidentale a guida francese, offre il proprio appoggio incondizionato a quel genuino sentimento di libertà che risponde al nome di Primavera Araba. Le armi chimiche non possono essere tirate in ballo, dato che Gheddafi (facendo tesoro delle sventure dell’amico Hussein) vi aveva espressamente rinunciato anni prima, ma il copione non cambia.
In un paese non certo paradigma aureo di alternanza politica, ma con un welfare illuminante ed un PIL di tutto rispetto tra i paesi emergenti, la sovranità politica viene ancora una volta delegittimata, attraverso un conflitto che condurrà alla morte di 25.000 persone, al brutale omicidio del suo leader, al dramma di 400.000 sfollati e al caos dei flussi migratori nel Mediterraneo.
La vendetta del Sarko’ sedotto e abbandonato
Però, oggi il cerchio si chiude. E non con la prassi contemporanea delle scuse, a frittata già fatta e spappolata, da parte degli imperialisti redenti. Bensì, con lo stato di fermo emesso dalla magistratura francese nei confronti dell’ex Presidente Sarkozy, indagato per riciclaggio di denaro e per finanziamenti elettorali illeciti provenienti, tu guarda, proprio dalla Libia.
Una misura cautelare che potrebbe innescare un processo storico e portare a galla, in maniera ufficiale, tutti i segreti di pulcinella che aleggiano da anni sulla campagna libica. Si potrebbe finalmente far luce sul Sarkò sedotto e abbandonato da Gheddafi.
Il Rais che dopo aver foraggiato la sua campagna elettorale con 50 milioni di euro ed aver promesso al futuro presidente una posizione privilegiata nell’ambito degli accordi energetici, nel 2010 siglò un accordo bilaterale da 50 miliardi di dollari con l’Italia. Un accordo che ci consegnò più di metà del petrolio libico.
Come ogni donna inacidita da una delusione sentimentale, Sarkò ha covato rancore fino al momento propizio e durante la peggiore crisi di consensi del suo mandato, si è scagliato con ferocia belluina contro il suo vecchio amore che lo tradì per la bella ed avvenente vicina di casa.
Il nostro odio verso l’interesse nazionale
Disgraziatamente, l’avvenente vicina di casa siamo noi e questo ci porta dritti dritti al nocciolo dell’annosa questione che concerne il nostro atavico ed ingiustificabile disprezzo per l’interesse nazionale.
Già, perché al conflitto che ha portato all’eliminazione fisica della nostra principale garanzia nei rapporti di forza del Mediterraneo, abbiamo partecipato attivamente anche noi: sia con la concessione di basi militari, sia con bombardamenti e raid aerei.
Con una scelta connotata da una dabbenaggine strategica senza precedenti nella storia delle geopolitica, non solo siamo entrati a piedi uniti in un conflitto criminale dal quale avevamo esclusivamente da perdere, ma ci siamo anche entrati mano nella mano con chi voleva spodestarci da una delle rarissime relazioni internazionali favorevoli ed in seguito, prendere il nostro posto.
Una scelta che in un paese con un minimo senso di autoconservazione, integrerebbe un’accusa popolare di alto tradimento nei confronti delle istituzioni incriminate, ma non nel nostro caso.
E dato che chi sostiene la tesi di una classe politica distaccata, bigotta e priva di empatia nei confronti dei consociati, non è altro che populista ignorante ed irresponsabile (alla stregua di chi contesta la dubbia utilità delle operazioni militari), noi li lasciamo fare. Anzi li lasciamo perseverare, accontentandoci della nostra magra vittoria pirrica.
Che potrebbe arrivare, ad esempio, quando si scuseranno per il Trattato di Caen e ci diranno che limitare le acque operative dei nostri pescherecci, cedendole nuovamente ai francesi, potrebbe aver effettivamente rappresentato un danno commerciale consistente.
Filippo Klement