L’accusa di violenza sessuale che vede coinvolti i due esponenti di CasaPound rimarca una squallida abitudine dei nostri media: quella di orientare le linee di condotta secondo requisiti identitari.
E’ davvero complicato riscontrare qualcosa di più ripugnante delle dinamiche che si innescano nei meandri dell’opinione pubblica, in occasione delle notizie di abusi sessuali. Una continua contrapposizione tra schieramenti animati da logiche partigiane, laddove l’epicentro del dibattito è rappresentato esclusivamente dall’identità della vittima o del presunto violentatore; il tutto, senza che si intraveda il benché minimo interesse per la verità, né tantomeno alcun desiderio di giustizia.
Quando il reo è di nazionalità straniera inizia una faida senza fine. Da una parte chi generalizza, accusando di propensione alla barbarie qualsiasi immigrato (e fondando il proprio assunto su basi quasi genetiche), e dall’altra chi, pur di assecondare la propria sensibilità xenofila, si riscopre estremamente garantista, accampando ogni genere di alibi o attenuante: era stressato, era depresso, è un gesto deprecabile dettato dalla disperazione, lo fanno anche gli italiani ecc. Identico procedimento – a parti invertite – naturalmente, quando il supposto violentatore risulta essere un autoctono.
Le linee editoriali
Dinamiche deprecabili come si diceva, ma che non sono altro se non lo specchio degli schemi adottati dal circo mediatico per narrare questo tipo di tragedie. Se sulla testata o sull’emittente finanziata da un editore destrorso verrà prestata maggiore attenzione a dettagli favorevoli alla causa “identitaria”, viceversa sull’organo di informazione con editore progressista si sceglierà di prediligere una linea utile alla retorica dell’accoglienza.
In calce a tutta questa panoramica generale tuttavia, non si può omettere una postilla doverosa: i secondi, per numero, peso ed egemonia culturale cristallizzata nel corso degli anni all’interno del settore dell’informazione, godono di una visibilità nettamente superiore rispetto ai primi. Con l’inevitabile conseguenza che un certo tipo di approccio finisca per possedere di una maggiore cassa di risonanza.
Il caso di Viterbo
La controprova di questa condizione di fatto, è stata offerta dal trattamento riservato alla notizia che sta monopolizzando la cronaca nera di questi giorni, oramai conosciuta come “lo stupro di CasaPound“. Stando alle accuse mosse da una donna di 36 anni (e al riscontro del procuratore capo di Viterbo dopo aver analizzato le prove multimediali) infatti, due giovani legati – in diversa misura – alla tartaruga frecciata la avrebbero prima stordita e poi violentata in condizione di totale incoscienza.
Un fatto stomachevole di fronte al quale, se la magistratura dovesse confermare la tesi dell’accusa, sarebbe inutile inerpicarsi alla ricerca di cervellotici alibi o giustificazioni socio-antropologiche. La violenza sessuale (ancor peggio se di gruppo) è la sublimazione della viltà, uno dei reati più turpi e probabilmente uno dei comportamenti più umilianti per le vittime: peccato che si tratti di una tesi che la stampa sembra condividere in modo intermittente e discriminatorio.
Una strana inversione di tendenza
Dopo mesi trascorsi a puntualizzare, analizzare minuziosamente ogni irrilevante particolare di ogni abuso, invitare al rigetto di ogni generalizzazione, deprecare strumentalizzazioni e professare la necessità di un approccio garantista (in teoria tanto doveroso, quanto la condanna della violenza sessuale al di sopra delle bandiere), la linea di condotta è stata diametralmente sovvertita. Così come alcuni capisaldi del nostro codice penale.
Il consigliere comunale e il giovane militante sono stati già marchiati a fuoco come incorreggibili animali oltre ogni ragionevole dubbio, la responsabilità penale non è più personale – bensì di partito – e l’adesione dei due ragazzi a CasaPound sembra essere assurta a pretesto per rimpolpare il dibattito sul suo scioglimento. Il nome del partito di estrema destra sta venendo ripetuto con voce squillante nei servizi e con frequenza ridondante negli articoli, in modo da creare maliziosamente una presunta connessione tra un crimine individuale (peraltro privo di connotati ideologici) e l’azione di una formazione politica.
Il pudore perduto
Viene da chiedersi dove sia finito tutto quel pudore che non consentiva mai di pronunciare la nazionalità di un delinquente straniero, per paura di dare adito a becere “derive razzistoidi”. Quello stesso pudore che ha condotto al parto di titoli demenziali come “bianco di carnagione scura” (in occasione dell’omicidio di Stefano Leo a Torino) o all’enfatizzazione della cittadinanza italiana di Osseynou Sy (l’autista senegalese che ha sequestrato ed incendiato un autobus pieno di minorenni); quasi come se la priorità fosse quella di assumere una sorta di paternità identitaria del crimine e scagionare il popolo africano da una possibile complicità etnica.
La desolante constatazione generata dalla cronaca di questa notizia, è che ormai i casi di violenza sessuale siano ridotti a meri strumenti di propaganda mediatica; con il prevedibile risultato che le logiche partigiane che animano l’opinione pubblica – di cui si parlava poc’anzi – non siano altro che una inevitabile conseguenza. Per dirla in maniera orwelliana in sostanza, l’impressione è che per la stampa gli stupri siano tutti uguali, ma alcuni più (o meno) uguali di altri.