Avevano fatto scalpore le dichiarazioni del vice premier Luigi Di Maio in merito alla qualità di parte del giornalismo italiano. “Noi raccontiamo la verità” così si erano difesi i giornalisti del Gruppo editoriale Gedi, quello che comprende Repubblica per intenderci, di fronte alle accuse di Di Maio.
Certo, l’uscita colorita e un po’ sopra le righe del vice premier ha fatto compattare la maggioranza del mondo del giornalismo e dell’editoria, pronti a difendere la professionalità del loro operato.
La libertà d’informazione in Italia è solo apparente
Tuttavia, seppur con modalità d’espressione discutibili, Di Maio ha in parte colto un problema che, proprio questa settimana, si è manifestato alla luce del sole in maniera incredibilmente limpida e chiara. L’informazione italiana non conosce il principio del pluralismo, soprattutto in materia politica.
Un giudizio che getta ombra lungo tutto il sistema di informazione italiano e che, purtroppo, è dimostrato nero su bianco da una recente indagine pubblicata da Agcom, l’Autorità italiana per le Garanzie nelle Comunicazioni. Il documento, uscito lo scorso 12 ottobre, dal titolo “Tabelle relative al pluralismo politico/istituzionale in televisione. Periodo 1/30 settembre 2018”, è frutto di un’attenta indagine volta a prendere in considerazione i palinsesti delle principali emittenti televisive italiane, pubbliche e private, durante tutto il mese di settembre. Sotto esame sono finite la Rai, Mediaset e La7. Il risultato è stato impietoso.
Sulla Rai trova spazio solo il Partito Democratico
Come si può notare dalla tabella sottostante è stata fatta una prima analisi specifica sul “tempo di parola dei soggetti politici e istituzionali nei telegiornali RAI”. Il Partito democratico spadroneggia ovunque: 34% del tempo totale sul Tg1, il 31% sul Tg2, addirittura il 40% nel Tg3. Con una media totale del 31%, la sua presenza viene insidiata da quella di Forza Italia, trasmessa per il 30% del tempo totale sui telegiornali Rai.
Al contrario le due forze politiche che costituiscono la maggioranza delle preferenze elettorali nel Paese, Lega e Movimento 5 Stelle, racimolano rispettivamente un misero 8% e 9%. In sostanza la televisione pubblica è riuscita quasi a ribaltare quelle che sono le proporzioni dell’elettorato dei rispettivi partiti. Si tratta di percentuali da far accapponare la pelle, che mettono in discussione il concetto stesso di televisione pubblica, come emittente in grado di dare un servizio accessibile a tutti e, soprattutto, adatta ai gusti di tutti.
La qualità scadente delle televisioni private
Non miglior sorte tocca poi alle emittenti private di Mediaset e La7, dove quest’ultima riesce, tra tutte, a salvare la faccia dell’imparzialità. A tratti grotteschi risultano invece i numeri di Mediaset, dove, il Tg4 concede il 64% del tempo totale alla sola Forza Italia. Una bella lezione per coloro che esaltano in maniera acritica l’efficienza e la qualità del servizio privato rispetto al pubblico.
Gli stessi saranno inevitabilmente esterrefatti nel scoprire che il loro modello di comunicazione privata si è allineata, negli standard, a quelli utilizzati dai Paesi oltre l’ex cortina di ferro.
Marcello Foa è davvero un pericolo per l’informazione?
Questo quadro drammatico in cui sguazza la televisione italiana fa venire più di un dubbio circa la legittimità di alcune esternazioni fatte dopo la nomina di Marcello Foa a Presidente Rai. Si è parlato di probabile deriva autoritaria e filo governativa dell’emittente pubblica, a seguito della sua nomina. Si è preannunciato uno scenario in cui la televisione non fosse più garante di equità e libero accesso a tutte le parti politiche. Insomma si è semplicemente descritto per filo e per segno uno scenario e un metodo di lavoro già purtroppo ben presente e radicato nel sistema dell’informazione, pubblica e privata.
Vi è poi un ulteriore fattore che non trova spazio nell’indagine di Agcom e che renderebbe, probabilmente, i risultati ancora più tragici: la qualità del tempo concesso. Perché un programma può decidere di invitare un esponente di un partito, ma può, allo stesso tempo, ridurre al minimo i suoi interventi, se non addirittura procedere ad una vera e propria ce(n)sura. I due recenti casi con protagonisti Paolo Becchi, su La7, e Diego Fusaro, su Rai 3, dimostrano come un programma può, solo apparentemente, rispettare la par condicio, ma privare della parola i propri ospiti a seconda dell’appartenenza politica.
Paolo Becchi, invitato per presentare il suo libro, scopre che il suo ruolo è stato attribuito ad un altro ospite.
In bocca al lupo Marcello Foa, avrai un gran bel da fare.