In termini storico-adattivi, ogni tanto dovremo ricordarci che la nostra esperienza in pandemie da virus trasmettibili con aerosol (particolarmente facili da veicolare e prendere) è molto limitata.
di Pierluigi Fagan
Ai tempi della spagnola, primi Novecento, il mondo era molto diverso da oggi. Anche l’asiatica tra fine anni ’50 ed inizio ’60, che pure fece stimati 2 mio di morti, si svolse in un mondo di più di un terzo più piccolo di oggi e senz’altro meno interconnesso.
Le due precedenti epidemie da coronavirus ebbero circolazione molto limitata e fecero, nel complesso, molti pochi morti. La nostra attuale SARS-CoV-2 ne ha fatti, ad oggi, 5,5 milioni, ma molti prestano attenzione alle stime recenti che ne contano fino 18 di milioni di morti comparando i volumi di decessi generali annui dichiarati nel mondo, con le medie delle serie storiche più recenti.
Mi colpì quindi a novembre scorso, la notizia di questa nuova variante omicron, poiché mostrava un numero assolutamente spropositato di mutazioni. Tale numero comportava un numero ancora più sproporzionato di replicazioni.
Dove mai erano avvenute senza che nessuno si accorgesse di niente? Dove erano le variazioni intermedie? Perché mai questa variante non sembrava derivare dalle altre note ed oltretutto mostrare una storia così complessa avvenuta chissà quando e dove prima di arrivare a qualche laboratorio in Botswana?
Se lo domandò anche Science, proponendo tre risposte. La prima, che poi era quella che immediatamente venne in mente anche a me, era che il virus era circolato a lungo in popolazioni poco istituzionalizzate e giovani (quindi con effetti limitati) quali quelle dell’Africa meridionale.
Il mio spirito terzomondista sposava allora la teoria di Tedros che invocava vaccini senza copyright e sforzo mondiale per l’Africa, sebbene nei fatti le vaccinazioni incidano poco sulla circolazione. Uno dei tanti casi in cui i nostri pre-giudizi ideologici ci portano a concludere certezze per niente certe.
I sudafricani invece, si imbarcarono in una seconda ipotesi con una teoria che mi parve subito bizzarra, di coltivazione di cicli e cicli di replicazione in un singolo ammalato di HIV.
Una terza ipotesi prevedeva il doppio salto di specie, dall’uomo a chissà quale gruppo animale e ritorno all’uomo. Una quarta, non prevista da Science ma dai sempre attivi scopritori di misteri, opinò che si trattava di una ingegnerizzazione fatta apposta per infettarci tutti con relativi pochi danni, renderci immuni e chiudere qui questa brutta storia per sempre.
Uno studio ancora in pre-print, avrebbe trovato infetti l’80% dei cervi dalla coda bianca della Iowa (non con omicron, lo studio venne fatto tra fine 2020 ed inizio 2021), lo segnalo perché della serie “stiamo scoprendo cose nuove perché è nuovo il fenomeno”, leggo sempre più di ricerche volte a questa ipotesi.
Se questa ipotesi di doppia o tripla circolazione tra mondo umano ed animale fosse consistente, sarebbe davvero un bel problema. Tra specie selvatiche, domestiche e di allevamento, ci troveremmo a condividere anelli di circolazione, replicazioni e mutazioni, con popolazioni di miliardi e miliardi di individui oltre ai 7,9 miliardi di umani.
E le logiche adattive in organismi così vari, per il virus comporterebbero quelle strane variazioni sommate che pare si siano trovate anche nell’ancora non registrato IHU (ben 46 mutazioni e 37 delezioni) trovato dai francesi in gente proveniente dal Camerun.
Ecco allora l’attualità della notizia che riporto di uno studio cinese che sosterrebbe con forti indizi l’origine di omicron nei topi (cioè dall’uomo i topi, mutazioni nei topi, ritorno all’uomo del mutante).
Speriamo di no, speriamo non sia così ovvero che potremo condividere la circolazione virale con i mammiferi perché altrimenti ci aspettano anni ed anni di tormenti e se i primi due hanno generato il casino che si nota, non voglio immaginare il resto.