Giunto al settimo libro della mia ricerca sul fenomeno digitale, vorrei qui fare un piccolo punto.
Autore: Pierluigi Fagan
Il fenomeno digitale è il trasloco della vita reale in un secondo ambiente, un Mondo 2.0. Due i motivi di tanto sforzo.
Il primo è economico e finanziario: ovverosia, replicare la spinta di crescita che animò il ciclo economico della prima metà del Novecento. Le rivoluzioni intrecciate di meccanica-elettricità-chimica a cavallo tra XIX e XX secolo avevano già affievolito la loro spinta negli anni Trenta: “per fortuna” ci fu la guerra. Le tre rivoluzioni unite alla trasformazione industriale dal militare al civile – e trainate dalla necessaria riparazione dei danni della distruzione (creatrice) -, fecero i vari Trenta gloriosi del primo consumo di massa. Già alla fine degli anni Sessanta, negli Stati Uniti, la spinta tendeva a flettere di nuovo. Cibernetica, Teoria dell’informazione, Computer ed Interconnessione, davano la speranza di poter attivare un nuovo ciclo.
Il secondo motivo è strategico. Un Mondo 2.0 artificialmente prodotto, digitale, garantiva maggior controllo rispetto al caos del reale e prometteva di potersi estendere come ennesima rete da lanciare sul mondo per catturarne l’energia vitale. Energia necessaria per alimentare il dispendioso stile di vita americano, stile fuori formato poiché relativo a condizioni mondo irripetibili, cioè quelle generate dal secondo conflitto mondiale.
Nulla del mondo digital-on line è originale, tutto è copia di cose che già esistevano.
Replicazione della musica, posta, video, news, socialità, negozi, cultura, banche, commerci, investimenti, sesso: non aggiungevano nulla di realmente nuovo, nuovo era solo il formato, la modalità, il contesto. Il Mondo 2.0, prometteva miliardi di pezzi off line per offrire i devices e miliardi di profitti on line per replicare cose che già esistevano off line.
Bloomberg l’altro giorno aggiornava la classifica dei 10 uomini più ricchi del pianeta: ben cinque provengono da questo ambiente, tra cui il primo ed il secondo. Si sarebbe allora portati a pensare che l’ICT valga complessivamente chissà quanto. Quando, invece, negli Stati Uniti – dove è un settore trainante ed il centro del fenomeno stesso – contribuisce “solo” per il 10% del PIL, il 12% per l’occupazione. In un Paese che tempo prima aveva scientemente rinunciato all’industria per dedicarsi al vantaggio comparato ricardiano nei “servizi”.
Negli USA l’80% del PIL è dai servizi, l’UE si ferma a circa il 70%, l’India al 60%, la Cina al 50%, mentre sopra la percentuale americana troviamo solo città Stato come Hong Kong e Lussemburgo oppure le isole-banca come i paradisi fiscali.
La “globalizzazione” era quindi necessaria anche per dare mercati ai servizi ottenendo però anche materie lavorate che in America non si sarebbero più prodotte.
Nei fatti, cinque degli uomini più ricchi del pianeta (Gates, Bezos, Zuckerberg, Page, Brin cioè Alaphabet, cioè Google), tali sono come a suo tempo lo fu Rockefeller col petrolio, perché sono monopolisti, semi o integrali. Deliberatamente ed in barba ai sacri principi teorici del liberalismo economico, che valgono per noi ma non per loro, gli USA sanno che gli unici che possono aprire mercati interamente nuovi avendone la massa, sono i monopolisti. In più, è meglio che chi entra nel Mondo 2.0, abbandoni le fisime del pluralismo e si sottometta al controllo dei Pochi (oligoi) che sono anche i Migliori (aristoi).
Tutto nasce alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Rand Corporation, ARPA-DARPA, NSF, complesso militar-industrial-parlamentare come lo chiamava Eisenhower, per seguire HP, Vannevar Bush, il NASDAQ aperto nel 1971, quando non c’era alcun vero ambiente industriale tecnologico da quotare ma c’era Nixon che decideva di scollegare dollaro ed oro aprendo la via della successiva finanziarizzazione del capitalismo americano, poi mondiale.
Le idee, si sa, si chiariscono col tempo. Così è anche per il mondo digitale.
Nel 1989 viene lanciato il gioco Sim City, ovverosia come “creare” un nuovo mondo dal nulla. Nel 1991 fu la volta di Civilization, ovverosia come creare una civiltà dal nulla. Nel 2000, nasce The Sims come spin off di Sim City, ovverosia come ricreare una vita nuova in ambiente virtuale. Nel 2003 è la volta di Second Life ovvero come convivere con altri in ambiente on line. Ma tutti questi progetti erano troppo meccanici, il salto vero non era come ricreare un Mondo finto, ma come traslocare quello vero nel finto facendolo diventare più vero del vero o “vero aumentato” (+).
Nel 2002, diciassette anni fa, la NSF ed il Dipartimento al commercio USA, commissionano uno studio a 50 tra scienziati ed ingegneri. Ne nasce il paradigma della grande convergenza e seconda fase del processo. NBIC è l’acronimo di Nanotech + Biotech + Infotech + Cognitive Science. L’assalto alla mente (cognitive) è portato anche dall’economia tradizionale, che comincia a sviluppare il neuro-marketing (e dare un cosiddetto “Nobel” all’economista comportamentale R. Tahaler nel2017) e dal farmaceutico con le smart and performative drugs, potenziatori cognitivi, ecc… Se l’ICT fa – al momento – solo il 10% del PIL americano, Healthcare fa quasi il 18%, Finance fa il 7,5%.
L’assalto al corpo, oltre che la mente, è ancora in via di sviluppo e promette “grande futuro“.
Gli uni e gli altri, andranno connessi tra loro e col Mondo 2.0 via Internet of Things, IOT. La vita sarà “wired”, le menti saranno wired, il mondo sarà wired. Wired “cablato” è la versione tecnica di – bound – “legato”.
Quindi, Mondo 2.0 serve per copiare Mondo 1.0 in ambiente protetto, poi per incollare tra loro esseri umani variegati ed esseri umani e grandi monopoli americani ed incollare tutto a gli interessi strategici degli Stati Uniti d’America. L’operazione copia+incolla è mossa dalla credenza tipica di quel popolo che recita “In Gold We Trust” e supportata sia dal sogno di creare un uomo ed un mondo nuovo (il mantra d’accompagno della disruptive economy è fare il “bene dell’umanità”, anche perché promette “smaterializzazione”), sia dal sogno di dominarlo.
“I popoli barbarici con schema di vita predatorio ben sviluppato, posseggono generalmente anche un abito (habitus) animistico in forte prevalenza, un culto antropomorfico ben definito ed un vivo senso della casta” (T. Veblen, “Teoria della classe agiata”, anno domini 1899).
Revisione ed impostazione grafica: Lorenzo Franzoni
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