Lo stato di incertezza è proprio del futuro o, meglio, dello sguardo presente che tenta di catturare lo stato futuro.
Autore: Pierluigi Fagan
Ma nel secolo scorso, in fisica, si è arrivati a scoprire che esso è al fondamento della stessa realtà fisica: apparentemente, la più concreta e definita che vi sia, per lo meno a livello particellare.
Tale fatto è stato compendiato nel “principio di indeterminazione” di Heisenberg, alla base di quella fisica che si chiama meccanica quantistica. Del principio, un fisico austriaco volle dare un esempio che voleva popolarizzare la questione, o meglio dare evidenza paradossale della interpretazione dominante che non condivideva, al pari di Einstein.
Ne nacque il “gatto di Schroedinger“, metafora assai popolare, abusata, quasi sempre usata a sproposito. La metafora voleva esemplificare, in forma di paradosso e non di fatto, il fatto che dei tanti futuri possibili propri della realtà micro-fisica, uno solo diventerà realtà di fatto, solo laddove c’è una presenza umana. La presenza umana, la semplice osservazione della realtà fatta da un umano, collassa l’ampio ventaglio delle molteplici possibilità nell’unica possibilità che diventa attualità. Dei futuri possibili, uno solo diventerà attuale per noi.
In questo giorni, per ragioni di studio, sto studiando un campo prima frequentato a-sistematicamente: lo studio dei futuri.
Dalle sibille, àuguri, indovini, pizie, profeti e divinatori, si è passati ai produttori di utopie, distopie, retropie, estropie, ucronie.
Poi a tentativi di previsione, lungimiranza, prospettive, prognostica, anticipazioni; nel mentre si sviluppava la fanta-scienza, genere letterario nato poco dopo la Rivoluzione Industriale ed i Piani Quinquennali. Oggi, gli anglosassoni hanno compendiato gli sforzi previsionali applicati al mondo, all’economia, alla geopolitica, alla politica, alla tecnologia, alla condizione ambientale, in una vera e propria disciplina: i “futures studies“.
Non sapevo, ma vi sono cattedre universitarie sparse in giro per il mondo di tali “futures studies“, da Seul a Teheran, da Sidney agli USA, passando per la Cina e l’Europa, di cui una anche in Italia, a Trento (Corso di “Previsione sociale” – e ricordo che Sociologia, a Trento, è storicamente una Facoltà di punta. Vi si laurearono Renato Curcio e Mara Cagol, tra gli altri).
La versione anglosassone, trae spunto dall’idea di sviluppare tale disciplina in forma più seria, diciamo tendenzialmente anche se non precisamente “scientifica”,
avuta da un tedesco Ossip K. Flechtheim, inventore del termine “futurologia” nel 1943. Flechtheim aveva anche ambizioni di filosofia politica e propugnava una terza via tra capitalismo e comunismo, che ridotta all’osso era un socialismo democratico rinforzato. Per come si esprimeva il tedesco: “ecologico, frugale, femminista, umanistico”.
Ma il grosso dei “futures studies” è nei think tank che abbondano in America, ma cominciano a svilupparsi in ogni Paese dotato di ambizioni. Come già vi riferii, sono molti i Paesi che hanno prodotto la propria “Vision“, di solito traguardata al 2030 o 2050 (mi sa che anche Renzi ne ha annunciata una alla Leopolda per il 2029). Ve ne sono anche di dimensione parlamentare come in Finlandia o mondiale.
Delle previsioni discusse ogni anno a Davos al World Economic Forum vi diedi già precedentemente conto, ma vi è un altro rapporto giunto oggi alla 19°edizione, lo State of the Future del The Millenium Project. Siamo sulla scia di molti altri rapporti quali quelli del Club of Rome o il Sierra Club o il russo Club Valdai. La pre-visione, è qui classicamente rivolta all’individuazione di rischi e possibilità (più rischi che possibilità invero).
Colpa del pessimismo della ragione o di una reale ragione anticipante o dell’unione tra la grande mole di dati e conoscenze che oggi abbiamo e l’oggettivo moltiplicarsi di contraddizioni e rischi nel mondo complesso, tali rapporti sono una non allegra e sempre meno terminabile elencazione di vere e proprie disgrazie. Negli anni Novanta, il Dipartimento della Difesa USA, a proposito del futuro aspettato, coniò l’acronimo VUCA – Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguous -, nel tentativo di acchiappare gli sfuggenti contorni.
A solo titolo esemplificativo, un primo elenco di disgrazie è questo:
- cambiamento e riscaldamento climatico;
- eventi fuori scala e disastri naturali;
- fallimento nella mitigazione climatica;
- aumento dei livelli del mare;
- isole e coste sommerse;
- migranti ambientali;
- carenze e crisi alimentari e di acqua;
- siccità;
- inondazioni;
- salinizzazione;
- perdita di biodiversità e di specie cruciali (come le api);
- colassi ambientali locali (eutrofizzazione);
- volatilità costante;
- terrorismo;
- rivolte;
- moltiplicazione delle richieste di sovranità;
- Stati falliti;
- crisi debitorie (mondiali, locali, bancarie);
- crisi fiscali;
- bolle e scoppio di bolle a ripetizione;
- inflazioni e deflazioni;
- diseguaglianze economiche, sociali e tecnologiche;
- epidemie globali;
- pandemie;
- salute mentale (ansia biologica, tecnologica, sociologica, ambientale; depressione “seconda causa di disabilità al mondo”);
- resistenza antibiotici;
- transumanesimo;
- problemi energetici;
- condizione delle donne;
- fallimenti nella pianificazione urbana;
- crimine organizzato;
- rivolta delle macchine (Hawking, Bostrom, Musk);
- codice etico delle macchine;
- perdita di lavoro;
- armi nano-bio-tecnologiche;
- cyberattacchi;
- frode o rapina di dati;
- guerre locali, interstatali, d’area, mondiali, elettromagnetiche, biologiche, climatiche, nucleari a vari livelli.
In più: Rischi sistemici (sistema e sotto-sistemi, mondo) non lineari, eccesso di complessità (tra totalitarismi e caos), effetti farfalla a gò-gò.
I poco avveduti, quando vengono citati questi rischi, pensano siano una invenzione delle élite per perpetrare il loro dominio. È invece il fatto che le élite li prevedono a farle preparare alla gestione. Non si confonda l’interpretazione col fatto, i fatti – anche se in ipotesi – prescindono per molti versi le interpretazioni.
In “1984“, Orwell sosteneva che
«Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato»,
una chiave concatenata che va letta come dominio delle narrazioni. Il potere in carica oggi, domina il racconto storico, sia quello della cose avvenute, sia quello delle cose che debbono avvenire.
Ma quelle che debbono avvenire sono anche una finestra aperta sull’oggettivo stato di incertezza dello sguardo rivolto al futuro.
Ed è in vista di questo previsionato futuro che poi si fanno molte scelte, introiettando il “poi“, di modo da condizionare l'”adesso“. I futuri sono possibili, probabili o desiderati.
Se i poteri disegnano i loro, i contro – poteri dovrebbero parimenti disegnare i loro -, siamo tutti gatti di Schrodinger che debbono pianificare la rivincita. Il pensiero critico più che levarsi sul far della sera come la nottola di Minerva (o civetta di Atena), ultimamente si sveglia con qualche decennio di ritardo. C’è un ritardo di attenzione, visione e pre-visione: la critica è schiacciata sul presente.
I futuri possibili, collasseranno nel presente che sarà, solo quando la presenza umana lo abiterà determinandone gli esiti. Il futuro non è scritto, e la politica è la lotta per possedere la penna che lo scriverà. Ma il futuro si scrive nel presente, perché per l’essere umano è la previsione ad animare l’intenzione.
Revisione ed impostazione grafica: Lorenzo Franzoni