Le Autorità ci dicono: “Pazientate, è come essere in guerra”. No: è molto peggio. A Milano, pur martellata dalle “fortezze volanti” americane e dai bombardieri inglesi, si poteva uscire di casa non solo, prendendo il tram, per lavoro, ma per incontrare un conoscente, recarsi al cinema, riunirsi con gli amici o andare semplicemente a spasso.
di Massimo Fini
A fare jogging, termine che allora neppur conoscevamo, non ci pensavamo nemmeno, eravamo già sufficientemente asciutti, i più svantaggiati erano quelli che stavano in città che dovevano servirsi della “tessera annonaria”, in campagna per il cibo non c’erano problemi.
Ovviamente quando suonava l’allarme e si cominciavano a sentire i primi colpi della contraerea si scappava nei rifugi, pochi, o nelle cantine. Certo con gli americani che bombardavano come sempre “a chi cojo cojo” se una bomba centrava la tua casa eri spacciato. Gli inglesi erano più professionali, mandavano, a bassa quota per sfuggire ai radar, un piccolo aereo da ricognizione per individuare nel modo più preciso possibile i bersagli da colpire. E a volte avevano gesti di un inusitato fair play.
Non dimenticherò mai
quel che accadde in un piccolo paese dove c’era una caserma. Passò l’aereo da ricognizione e lasciò cadere dei volantini che dicevano più o meno: fra poco bombardiamo. Tutti gli abitanti fuggirono nei boschi tranne le sentinelle della caserma, due giovani di vent’anni. Erano o non erano le sentinelle? Il loro compito era rimanere lì. Passò il bombardiere, centrò la caserma e i ragazzi morirono. La gente che noi chiamiamo ‘comune’ sa bene, al momento del dunque, quali sono i suoi doveri mentre la classe dirigente si squaglia e se la squaglia.
Poi si poteva “sfollare”. I mariti restavano in città a lavorare, le famiglie, donne e bambini, si rifugiavano in zone meno esposte, in genere le Prealpi. Chi poteva, cioè i meglio ammanicati e i ricchi, due categorie che in genere si sovrappongono, si rifugiava in Svizzera. C’erano poi delle circostanze inaspettatamente favorevoli.
Una sera di molti anni fa
portavo Guglielmo Zucconi, mio direttore al Giorno, a Modena, sua città natale dove doveva ricevere un Premio. Sull’autostrada c’era una nebbia fittissima e io sacramentavo. “Vedi –mi disse il vecchio Zuc- quando noi eravamo ragazzini la nebbia era la felicità”. “Perché?” chiesi. “Perché con la nebbia non bombardavano e noi potevamo uscire a giocare sicuri di non beccarci una bomba”. Insomma si sapeva da dove veniva il pericolo e come cercare di schivarlo.
Il Coronavirus è un nemico invisibile. E’ ovunque. Può stare nell’aria o nel fiato del vicino o su una banana che compri al supermercato. Non conosce confini e frontiere ed è inutile rifugiarsi in Svizzera o a Montecarlo (e per una volta, come in ‘A livella di Totò, ricchi e poveri sono sullo stesso piano).
Le Autorità prendono di continuo nuove misure, probabilmente giuste. Ma per il cittadino è come avere una corda al collo che si stringe progressivamente. L’acquisto e il consumo di ansiolitici è verticale. Qui va a finire che moriremo più per lo stress che per il Coronavirus.
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