La Cina inaugura un nuovo corso economico concentrandosi sul mercato interno.
In un momento storico di crescente interdipendenza economica come quello della globalizzazione, la Cina visse una stagione di grande sviluppo e crescita del PIL a doppia cifra. Il Paese sfruttò l’export come forza trainante della propria economia tra i primi anni ‘80 e i primi anni 2000. Ma oggi, questo trend appare oggi invertito: la Cina abbraccerà l’economia duale, avviando un “nuovo corso” nell’era post-Covid, caratterizzato da un ritrovato focus sul mercato interno.
Pechino segue il trend della “deglobalizzazione”
Appare dunque evidente come sia la guerra dei dazi tra USA e Cina, sia l’avvento della pandemia vadano interpretati più come catalizzatori che come cause di un processo già in atto da tempo, la “deglobalizzazione”.
Il coronavirus, che ha imposto la chiusura delle frontiere e il blocco dei traffici, non ha solamente fatto saltare l’accordo commerciale sino-americano stipulato nel gennaio 2020, deteriorando ulteriormente i rapporti tra i due governi, ma ha anche e soprattutto risvegliato in Cina (e in molti altri paesi) quel sentimento autarchico di derivazione maoista.
La ricerca dell’indipendenza economica sta alla base del nuovo corso dell’economia cinese nell’era post-Covid. Già in occasione delle “Due sessioni” dello scorso maggio, il Partito Comunista Cinese (PCC) aveva reso nota l’intenzione di cambiare rotta, spostando il focus politico sulle questioni domestiche anziché estere. L’intenzione si è poi concretizzata nel 14° Piano quinquennale (delineato durante il quinto Plenum del XIX Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese), che detterà le linee guida dello sviluppo economico cinese nel periodo 2021 – 2025.
Il Piano dovrebbe definire (il testo ufficiale sarà disponibile solo nei primi mesi del 2021) il nuovo corso dell’economia cinese, incentrato sulla “doppia circolazione” (dual circulation strategy o DCS), ovvero l’integrazione tra circolazione economica esterna e domestica, che in termini cinesi si traduce in un’enfasi maggiore sul mercato e sui consumi interni.
L’hi-tech come perno della svolta autarchica
L’innovazione tecnologica sarà il mezzo principale attraverso cui Pechino tenterà la virata autarchica. Sono previste riforme strutturali che dovranno risolvere i gravi problemi di inefficienza del settore hi-tech, verosimilmente dovuti agli eccessivi sussidi da parte del governo centrale all’industria dei chip. Tali investimenti da parte del PCC infatti, pur avendo contribuito allo sviluppo del settore, hanno anche attirato svariati investitori privi delle conoscenze tecniche richieste per promuovere l’innovazione, risultando in progetti falliti e sperpero di risorse pubbliche.
Gli standard tecnici definiscono l’interoperabilità dei dispositivi elettronici e digitali nel mondo. Il fatto che i nostri smartphone siano in grado di funzionare in qualunque parte del globo, che diversi apparecchi come televisori, computer, consolle siano dotati di bluetooth e ingressi USB e siano in grado di connettersi a una stessa rete WiFi, è frutto dell’impostazione di standard tecnici internazionalmente riconosciuti.
Ma se fino a questo momento tali standard sono stati stabiliti da comitati tecnico-scientifici o a livello privato, la Cina intende per la prima volta promuovere un modello statale di definizione degli standard, e così settare le “regole del gioco” su 5G, Intelligenza Artificiale, Cloud Computing, Internet of Things e così via.
Risvolti geopolitici della definizione degli standard tecnologici globali
I primi paesi cui nell’immediato futuro Pechino potrebbe estendere i propri standard domestici nell’hi-tech sono quelli in via di sviluppo già interessati dagli investimenti della Belt and Road Initiative (BRI). Potenzialmente, questi sarebbero infatti i primi a sviluppare una sorta di dipendenza dalla tecnologia cinese (se già non l’hanno sviluppata). In effetti, la Cina è già riuscita a imporre alcuni standard relativi a diversi settori dell’economia in svariati paesi BRI, ad esempio tramite l’Action Plan for Harmonisation of Standards along the Belt and Road (2015 – 2017). Non ci sarebbe quindi motivo di dubitare che la stessa sorte possa presto toccare all’ambito hi-tech.
Ad ogni modo, questa prima espansione verso gli Stati Centro e Sud-asiatici e in parte africani sarebbe da vedere non come un progetto fine a se stesso, ma come una “palestra” per effettuare le prove generali prima di imbracciare la più ardua sfida europea. Anche se le potenze del Vecchio Continente, decisamente meno dipendenti (al massimo più interdipendenti) dalla Cina, si sono già divise sulla questione 5G, a oggi esse rimangono comunque prevalentemente sotto l’ombrello di influenza americano, dunque più difficilmente condizionabili.
Il carattere globale del progetto cinese rimane dunque evidente. Pechino intreccia i piani di sviluppo economico domestico con quelli di proiezione di potenza all’estero. Il China Standard 2035 ne è solamente un esempio: in ambito tecnologico la Cina detiene un vantaggio considerevole sul resto della concorrenza mondiale, vantaggio che se mantenuto rappresenterebbe un fulcro ideale su cui far leva in futuro per estendere soft power. L’altro esempio, forse il più lampante, rimane la Belt and Road Initiative, lanciata nel 2013 con il doppio intento di favorire gli interscambi tra Regno del Centro e il blocco Eurasiatico e Africano, ma anche di promuovere sviluppo nell’altrimenti isolata Cina occidentale.