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L’impietoso ritratto dell’Istat su occupazione, sanità ed investimenti

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È uscito il consueto report annuale dell’ISTAT, quasi 300 pagine di dati e di statistiche per raccontare lo stato di salute del Paese.

di Gilberto Trombetta

L’attuale crisi, l’ennesima legata a un sistema economico [ordo]liberista tutto puntato sull’export a scapito del mercato interno e dell’interventismo statale in favore di lavoro e salari, va collocata nel quadro di in un Paese che ancora non era tornato ai livelli precedenti la crisi del 2008.

Il debito pubblico e la produzione industriale

Il rapporto debito/PIL (grafico 2), nonostante una spesa pubblica sostenuta, era perfettamente sotto controllo durante il 30ennio glorioso (dalla fine della II guerra mondiale alla fine degli anni 70). Al contrario di quello che ci hanno raccontato per giustificare l’adesione allo SME e il divorzio BdI/Tesoro, a causa dei quali invece esplose.
Dopo il crollo segnato a marzo (-28,4%), la produzione industriale nel mese di aprile ha segnato un’ulteriore caduta congiunturale: -19,1%. Vuol dire che rispetto ai livelli di febbraio l’indice è diminuito del 44%.
Nell’ultimo mese la contrazione della produzione è stata particolarmente severa per i beni durevoli (-65,5%) e meno accentuata per i beni strumentali e intermedi (rispettivamente -21,8% e -24,6%). I beni di consumo non durevoli (-8,4%) hanno risentito positivamente della tenuta della produzione di beni alimentari (-0,1%) mentre l’energia ha mostrato un modesto recupero (+0,7 per cento) dopo la discesa dell’8,8 per cento di marzo.

Il lavoro tra precarietà e inattività

I lavoratori in cassa integrazione guadagni (Cig) sono passati da meno di 50.000 di febbraio ai circa 1.200.000 di marzo e ai quasi 3.500.000 di aprile. Un aumento senza precedenti degli occupati che non hanno lavorato nella settimana di intervista: circa un quarto del totale a marzo e oltre un terzo ad aprile, pari a circa 7.600.000 lavoratori.
Nei mesi di marzo e aprile, nonostante la caduta dell’occupazione, si è registrata una diminuzione della disoccupazione (-484 mila, -23,9%) dovuta all’eccezionale aumento dell’inattività (+746.000, +5,4%).
Nonostante negli ultimi anni il numero di disoccupati sia diminuito, passando dagli oltre 3.200.000 del 2014 a quasi 2.600.000 del 2019, il livello rimane ben al di sopra di quello del 2008 (1.700.000, +52%). La componente giovanile della disoccupazione continua a essere significativa (quasi il 30% dei disoccupati ha tra i 25 e i 34 anni).
 Il Mezzogiorno presenta un tasso di disoccupazione tre volte superiore a quello del Nord-est e doppio rispetto al Centro. Gli inattivi di 15-64 anni, si sono ridotti dal 2008 al 2019 di quasi 1.200.000 (-8,2%), prevalentemente però per l’aumento dei disoccupati (+900.000).

Lavoratori potenziali e disoccupazione

Risultano in crescita, rispetto al 2008 (+186.000), anche le forze lavoro potenziali, cioè la componente dell’inattività costituita da quanti sono disponibili a lavorare se si presentasse la possibilità anche se non hanno svolto azioni di ricerca. Il tasso di mancata partecipazione è nel Mezzogiorno quasi tre volte e mezzo superiore a quello del Nord, quello dei giovani più del doppio di quello degli ultracinquantenni, quello di chi ha un basso livello di istruzione due volte e mezzo quello dei laureati.
Nel complesso il segmento di forza lavoro non utilizzata e potenzialmente impiegabile è di circa 5.500.000 di individui nel 2019 (2.600.000 di disoccupati e 2.900.000 di forze lavoro potenziali). Nel 2008 la forza lavoro non utilizzata ammontava a 4.400.000, il 20% in meno (di cui 1.600.000 disoccupati e 2.800.000 forze lavoro potenziali).
Gli italiani hanno fronteggiato l’ormai decennale crisi prevalentemente grazie ai redditi da lavoro di chi era rimasto occupato, ai redditi da pensione e ricorrendo agli eventuali risparmi accumulati. Come conseguenza, la povertà assoluta è salita con forza passando dal 4,0% del 2008 al 6,4% del 2019 quella familiare e dal 3,6% al 7,7% quella individuale. Nel 2019 gli italiani in povertà assoluta sono quasi 4.600.000.

I tagli alla sanità

L’emergenza sanitaria interviene a valle di un lungo periodo in cui il Servizio Sanitario Nazionale è stato fortemente ridimensionato nelle risorse finanziarie, causando un pesante indebitamento a carico delle Regioni.
L’Italia impegna infatti per la sanità pubblica il 6,5% del PIL, molto meno del 9,5% della Germania, del 9,3% della Francia e del 9,2% della Svezia ed è al 12° posto nella graduatoria dei Paesi UE. La maggior parte di queste risorse, in Italia, è allocata per l’assistenza ospedaliera, alla quale va il 3,8%, il che ci colloca al 5° posto in Europa, dietro Danimarca (4,2%), Francia, Svezia e Norvegia (4,1%).
La quota di risorse destinate dal nostro Paese all’assistenza sul territorio è pari all’1,2% del PIL, cosa che ci vale il 15° posto nell’UE: un impegno finanziario molto basso, se confrontato con la Germania (2,9%), il Belgio (2,7%) e la Danimarca (2,3%).
L’austerità degli ultimi anni ha portato alla contrazione delle prestazioni, alla riduzione della rete ospedaliera, dei posti letto e del personale sanitario. Anche la riduzione della spesa per investimenti è stata causata dall’austerità: si è passati dai 2,4 miliardi del 2013 a poco più di 1,4 miliardi del 2018 (-41%).

 La riduzione del personale sanitario

Al rallentamento della componente pubblica ha corrisposto una crescita più sostenuta della spesa privata delle famiglie, che in questo periodo è aumentata in media del 2,5% annuo, assumendo un ruolo supplementare rispetto all’assistenza pubblica.
Rispetto al 2012 la diminuzione del personale sanitario è stata del 4,9% e ha riguardato sia medici (-3,5%) che infermieri (-3,0%). Nello stesso periodo (2012-2018) il solo personale a tempo indeterminato del comparto sanità si è ridotto di 25.808 unità (-3,8%): i medici sono passati da 109.000 a 106.000 (-2,3%) e il personale infermieristico da 272mila a 268mila (-1,6%).
L’Italia dispone di 39 medici ogni 10.000 residenti, un numero sensibilmente inferiore a quello della Germania, che ne conta 42,5. A causa del blocco del turnover detiene inoltre il primato dei medici più anziani : la percentuale di quelli attivi di 55 anni o più è del 55%. Tanti anche i medici over 65 (15,5%).
Per quanto riguarda il numero di infermieri l’Italia, con circa 350.000 professionisti, cioè 58 ogni 10.000 residenti, si colloca nella parte bassa della graduatoria, e precede solo Spagna (57,4), Cipro (53,8), Polonia (51,0), Lettonia (45,7) e Bulgaria (43,7). La Germania e la Francia hanno una dotazione circa doppia rispetto all’Italia. Mentre la maggior parte dei paesi Ocse ha circa 3 infermieri per ogni medico, in Italia il rapporto è di 1,5.

Posti letto e cure primarie

Nel 1995, i posti letto ospedalieri erano 356.000, pari a 6,3 per 1.000 abitanti. Dal 2010 al 2018, il numero di posti letto è diminuito in media dell’1,8% l’anno, continuando un andamento iniziato nella metà degli anni 90. Si è passati dai 244.000 posti letto del 2010 ai 211.000 del 2018. Si tratta di 3,49 posti letto ogni 1.000 abitanti.
Nel 2018 il personale addetto alle cure primarie ammonta a circa 43.000 medici di medicina generale e 7.500 pediatri di libera scelta (PLS). Rispetto al 2012, i MMG sono diminuiti di 2.450 unità e i PLS di 157.
L’Italia dispone di 7,1 MMG ogni 10.000 residenti. I PLS sono 9,3 ogni 10.000 bambini e adolescenti con meno di 15 anni. I medici di continuità assistenziale in Italia sono 17.306, 2,9 ogni 10 mila residenti. Le strutture gestite dalle Asl, nel 2017, sono complessivamente 5,8 ogni 100 mila abitanti, in diminuzione rispetto al 2009, quando erano 6,4.

L’ascensore sociale porta solo in basso

Per la prima volta dalla fine della II guerra mondiale, a parità di generazioni, i figli hanno perso terreno rispetto ai genitori. Nel passaggio dalla generazione dei genitori a quella dei figli si è verificato un considerevole rallentamento dell’espansione dimensionale delle classi medie e superiori.
Una tendenza iniziata a partire dalla metà degli anni 90 con la prolungata fase di stagnazione del nostro sistema economico. Iniziata cioè quando, con la firma del trattato di Maastricht e l’adesione all’Eurozona, sono cominciati gli avanzi primari e la compressione della domanda interna per recuperare terreno nell’export penalizzato da una moneta sopravvalutata per l’Italia.
Un peggioramento tanto più incisivo considerando che, tra i componenti dell’ultima generazione, la quota di persone mobili in senso discendente supera quella con mobilità ascendente, marcando così una netta discontinuità nell’esperienza storica compiuta dalle generazioni nel corso di tutto il XX secolo.

La carenza cronica di dipendenti pubblici

Al contrario di quanto ritengano in molti (troppi), l’Italia soffre da decenni di una carenza cronica, rispetto agli altri Paesi europei, di lavoratori pubblici in tutti i settori: sanità, amministrazione, difesa e ricerca. Nel 2019 la quota di lavoratori nella sanità (esclusa l’assistenza sociale) non raggiunge il 6%, mentre in Francia, Germania e Regno Unito si oltrepassa il 7%.
Il settore amministrazione pubblica e difesa, che ha perso dal 2008 190.000 occupati, presenta in Italia una quota del 5,3%, contro il 6,8% della media europea, con la Francia che supera il 9%. Per la ricerca, settore fondamentale per lo sviluppo del Paese, la quota occupazionale è ancora più bassa: meno della metà se confrontata con Germania e Francia.

Asili nido: pochi e troppo cari

L’aumento dell’uso del nido che si è registrato negli ultimi anni avviene soprattutto laddove la diffusione delle strutture è ampia e consolidata e quando il reddito familiare è alto. Ordinando per quintili il reddito delle famiglie, la percentuale di famiglie con bambini che frequentano il nido cresce via via che si passa dal primo, quello che racchiude l’insieme delle famiglie più povere (in cui solo il 13% ricorre al nido), all’ultimo, dove si collocano le più ricche (31,2%).
L’accesso al nido viene razionato, quindi, proprio nelle situazioni di disagio, dove sarebbe più importante al fine di ridurre lo svantaggio che deriva dalle condizioni socio-economiche di partenza. Il costo contribuisce a condizionare la scelta dei genitori. Le tariffe di iscrizione sono infatti alte: mediamente la spesa sostenuta dalle famiglie che usano il nido, pubblico o privato, è 1.996 euro all’anno.
Un dato che trova conferma nelle informazioni tratte dai bilanci dei Comuni che riportano, come compartecipazione delle famiglie alla spesa per un bambino iscritto nei nidi comunali, un importo annuo medio di circa 2.000 euro. Come se non bastasse, l’offerta di posti è fortemente eterogenea tra territori, a sfavore delle aree meno ricche.
Ancora una volta a risultare penalizzato è il Mezzogiorno: sommando i posti disponibili nei nidi e nei servizi integrativi, pubblici e privati, mediamente non si arriva a coprire il 15% dei bambini fino a 3 anni di età. Un valore distante da quello delle regioni del Centro-Nord.
Non deve stupire alla luce dei dati su lavoro e accessibilità dei nidi, l’ulteriore crollo della natalità: nel 2018 i neonati sono stati 439.747, oltre 18.000 in meno rispetto all’anno precedente e quasi 140.000 in meno rispetto al 2008. E secondo le stime preliminari, le nascite nel 2019 sono calate ulteriormente, arrivando a 435.000.
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