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Il Leone di Venezia non ha il coraggio di uscire dalla tenuta di caccia del neorealismo

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L’altro giorno quando ho udito dalla televisione, devo dire in modo distratto, il titolo del film che ha vinto il Leone di Venezia, per un momento ho pensato che il cinema italiano all’improvviso fosse miracolosamente guarito e fosse uscito dai soliti schemi triti e ritriti del grigio realismo e dell’impegno sociale per andare a esplorare territori misteriosi e al tempo stesso clamorosamente diversi.

Devo dire, e faccio ammenda di questo, di essere stato vittima di un’ingenuità quasi surreale se non addirittura comica.

Mi sono illuso che qualche regista finalmente avesse avuto il coraggio di uscire dai soliti binari tranquillizzanti di quella che è la tradizione imposta del cinema italiano, e avesse girato un film di ben altro respiro e livello storico. Quella frase tronca non voleva riferirsi al Sacro Calice dell’ultima cena di Gesù, alonato da un affascinante mistero attorno a cui sono stati scritti fiumi di inchiostro, ma in modo, come al solito, tremendamente più prosaico, ad una sorta di road movie-documentario che narra a spezzoni le vite di alcune persone che vivono nientemeno che nei pressi del Grande Raccordo Anulare di Roma.

Personaggi particolari, tra i quali spiccano un nobile decaduto che vive con la figlia un’oscura esistenza di borgata, un paramedico con tanto di madre affetta da demenza senile, un gruppo di prostitute transessuali e un altro nobile che vive in un castello dove si girano scene per fotoromanzi. La delusione di non poter assistere ad un film evento, tipo quello di Pupi AvatiI cavalieri che fecero l’impresa“, o “Il mestiere delle armi” di Ermanno Olmi, lungometraggi che ho visto a suo tempo e che ho trovato a dir poco possenti sia nella sceneggiatura che nella trama, è stata cocente.

A quel punto sono andato a leggere uno dei tanti commenti al film in questione che ho trovato su internet e la frase che mi ha particolarmente colpito a riguardo è stata quella che vi ha visto una particolare “trasfigurazione della realtà in mito“. Una affermazione che, se vera, dovrebbe essere destinata a modificare, anzi a rivoluzionare il concetto di mito a cui ero abituato, una concezione che non ha nulla da spartire, almeno stando alla trama del film in questione, con quanto insegnatomi negli anni del liceo riguardo alla storia e alla differenza appunto tra mito e realtà e tra realtà e concezione epica e leggendaria della stessa.

Alla fine, con tutto il rispetto per l’opera del regista Gianfranco Rosi, che non mi permetto di criticare se non al limite per una certa qual mancanza di coraggio ad uscire dai soliti schemi del cinema nostrano, penso che, per quanto riguarda il panorama cinematografico italiano, nulla di nuovo continui ad esistere sotto la luce del sole. Ho già chiarito il mio pensiero un paio di anni orsono sulle pagine dell’allora “Genio Quotidiano“, quando ho affermato che il cinema italiano continua a soffrire di dipendenza psicologica dal neorealismo e di una grande paura da parte dei registi di…osare dove osano le aquile. Una paura che impedisce di affrancarsi, una volta per tutte, dal solito quasi stucchevole conformismo, dettata anche, va detto, da una certa demagogia di fondo, ancorata all’universo intellettuale della sinistra italiana, che mina, a nostro giudizio le basi dell’intero movimento cinematografico italiano.

Un movimento cinematografico che, in una sorta di ripetitivo ed ossessionante dejavù, continua a trasmettere…segnali dal passato, ovvero a continuare imperterrito la strada dell’impegno sociale e della visione del reale inteso sempre e comunque come piagnisteo continuo e tristo riciclaggio di esigenze di nostrane vicissitudini. Siamo stati bravi a suo tempo a piangerci addosso e a fotografare la realtà del nostro paese, una realtà che però, adesso, non solo andrebbe superata una volta per tutte, ma che, a pensarci bene, non è più, come un tempo, completa e onnicomprensiva come continuano a farci credere, ma ormai gravida di svariate e molteplici sfaccettature, dove magia e ricerca del mistero o comunque del brivido o del clamorosamente diverso convivono accanto ai tranquillizzanti e vetusti paradigmi legati all’impegno sociale.

La realtà può anche essere quella che il regista Rosi è andato con la sua bravura a scovare e a narrare ma nessuno è in grado di spiegarci, tra i vari Soloni e intellettualoidi che frequentano le sale cinematografiche, perché il cinema, in particolare quello italiano, debba continuare ad avere come unico scopo quello di fotografare solo e soltanto quella realtà e non debba avere il coraggio di scoprire orizzonti nuovi e meno stantii. Qui c’è tutta la demagogia manicheista di certo materialismo indottrinato dai dogmi dell’ultra sinistra intellettuale che vede il cinema ma non solo, anche la letteratura, unicamente come doverosi testimoni di una realtà a senso unico, ovvero della realtà che fa parte del bagaglio un po’ polveroso, tanto caro, perché fa comunque comodo, alle false certezze di certo materialismo storico duro a morire. Un materialismo che continua a concepire l’arte solo e soltanto come strumento per preparare il terreno all’avvento di utopie ormai relegate nella polvere del vintage.

di Roberto Crudelini

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Di Roberto Crudelini

Nato nel 1957. Laureato in Giurisprudenza, ha collaborato con Radio Blu Sat 2000 come autore e sceneggiatore dei Giornali Radio Storici, ha pubblicato "Figli di una lupa minore" con Rubettino, "Veni, vidi, vici" e "Buona notte ai senatori" con Europa Edizioni e "Dai fasti dell' impero all'impero nefasto" con CET: Casa Editrice Torinese. Collabora con Elzeviro.eu fin dalla sua fondazione, nel 2011.

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