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Italiana rapita in Kenya, tra iene del web e incompetenza ONG

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L’episodio relativo alla ragazza italiana rapita in Kenya ha scatenato il consueto campo di battaglia ideologico in Italia. Un evento che nulla dovrebbe avere di politico pare invece aver polarizzato l’opinione pubblica su due classici schieramenti.

Sembra quasi che il personale credo politico debba forzatamente influenzare e orientare il giudizio rispetto a qualsivoglia accadimento quotidiano.

Non aiutiamoli più a casa loro?

E così a “destra” si è scatenato il coro unanime di coloro che vorrebbero indossare la maschera del realismo, ma che in realtà smascherano solo ipocrisia. “Se l’è cercata” è il commento che arriva da questa parte, aggiungendosi allo sbigottimento nel vedere un’italiana che “parte per aiutare i poveri in Kenya invece che aiutare i poveri in Italia”. Un ragionamento che stona profondamente con quello slogan dell’ “aiutiamoli a casa loro” sbandierato a più riprese da chi si sente di “destra”. Aiutarli a casa loro, ma senza andare a casa loro, sembra un ragionamento un po’ contorto e sicuramente ottenebrato da un’ideologia invasiva, ma incapace di analizzare la realtà.

Sullo schieramento opposto non c’è però troppo da sorridere. Gli esponenti dirittoumanisti, quelli per un mondo senza confini e frontiere, esaltano aprioristicamente la ragazza e il suo lavoro, limitandosi a rincuorarsi reciprocamente nel vedere il vicolo cieco concettuale in cui sono incappati gli avversari. Nulla di più. Ecco, in questa dialettica c’è un abisso privo di contenuti ed analisi di valore. Il dover interpretare un qualsiasi evento della vita quotidiano attraverso lenti ideologiche ormai vecchie, limita fortemente la nostra capacità di analisi.

ONG inadatte ad operare in contesti a rischio

Il Kenya è stato recentemente agitato da violente proteste. Non è un Paese sicuro.

Ciò che per esempio salta agli occhi di chi osserva con più attenzione gli eventi è la naturalezza con cui entrambe le parti hanno accettato il drammatico evento. Una ragazza di 23 anni era in Kenya come “volontaria” per una onlus italiana e, al momento del rapimento, si trovava da sola, in una delle sedi della stessa onlus situata in una parte remota del Paese. Bene. A nessuno è passato per la testa di chiedersi come sia possibile che una onlus permetta a un proprio dipendente, giovane e inesperto, di risiedere da solo in una zona così remota di un Paese ad alto rischio di terrorismo? La responsabilità dell’associazione in questa vicenda, della sua scarsa predisposizione al rispetto di protocolli di base per la sicurezza dei dipendenti, dovrebbe essere evidente, eppure nessuno l’ha detto.

Mentre però è del tutto comprensibile che lo schieramento che ha innalzato le ONG a mò di feticcio, taccia tatticamente su questo aspetto, è inspiegabile invece la distrazione della fazione opposta. Dopo mesi di campagne più o meno legittime contro le organizzazioni non governative, ecco che si presenta sul piatto d’argento un episodio che potrebbe minarne in maniera importante la credibilità. La vita di una ragazza italiana sospesa per l’incompetenza di una onlus e il nostro sistema di intelligence mobilitato come tappabuchi e pronto a usare, chissà, soldi dei contribuenti per un eventuale riscatto.

Quando lo spirito buonista vale di più della sicurezza dei dipendenti

Greta e Vanessa espongono un cartello pro jihadismo

Così a “destra” hanno sbagliato il più classico dei gol a porta vuota. Ora, schieramenti a parte, è assai grave che episodi simili continuino a verificarsi con tale frequenza. Onlus, Ong e associazioni di modeste dimensioni ed esperienza che aprono sedi e progetti in zone a rischio con troppa superficialità. Solo nel 2015 l’episodio di Greta e Vanessa aveva dimostrato a che tipo di destino potessero andare incontro le volontarie di una Ong fatta in casa e lanciata allo sbaraglio in un contesto di guerra. In quel caso con l’aggravante di aver preso contatti con gruppi armati di jihadisti e non essere nemmeno iscritta alla lista di organizzazioni autorizzate dalla Farnesina.

Questa grave superficialità, malamente nascosta sotto la maschera di una presunta spinta solidaristica, è costata allo Stato italiano mezzi, tempo e risorse. E oggi, in un Kenya infiammato da un clima di malcontento generale e minacciato da continue incursioni di cellule terroristiche, un’associazione italiana ha anteposto lo spirito crocerossino alla sicurezza dei propri dipendenti. È inutile aiutarli a casa loro senza prima porre la giusta attenzione a casa propria.

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Di Gabriele Tebaldi

Classe 1990, giornalista pubblicista, collabora con Elzeviro dal 2011, quando la testata ha preso la conformazione attuale. Laurea e master in ambito di scienze politiche e internazionali. Ha vissuto in Palestina, Costa d'Avorio, Tanzania e Tunisia.

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