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Il senso dei media per la Libia

Museo della Libia, Tripoli, già Palazzo del Governatore di Libia e Palazzo reale.

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Lo stesso clero mediatico che benedì le bombe della NATO, di fronte alle ricette “nostalgiche” di CasaPound riscopre una certa sensibilità.

Una prassi ormai ampiamente consolidata, vuole che le campagne elettorali finiscano per tramutarsi in una fonte inesauribile di gaffe e di sesquipedali scivoloni. Il tutto però, con dei doverosi distinguo. Alcune volte si tratta di cantonate effettivamente imperdonabili, le quali rischiano di diventare perfino esiziali ai fini del risultato finale. In altri casi invece, l’esposizione al pubblico dileggio si rivela essere nient’altro che il frutto di una capziosa opera di decontestualizzazione messa in atto da qualche avversario politico.

In ogni caso, una cernita per la quale quello spietato veicolo di informazioni e dati che risponde al nome di web, non ha né interesse, né tempo.

Il video “incriminato”

Da alcuni giorni, sulla rete sta spopolando un video che trova la sua ideale collocazione in un’ipotetica terra di mezzo tra le due fattispecie di cui sopra: un estratto della puntata di “Tribuna politica” dedicata a Simone Di Stefano.

Nella clip incriminata ed estrapolata dal contesto di un più ampio discorso sulla gestione della crisi migratoria, il leader di CasaPound enuncia il suo avventuroso progetto di rimpatri (attraverso la creazione di forza lavoro), di lotta alle bande armate e di edificazione di un protettorato italiano transitorio in Libia. Un’esposizione che, vuoi per la faciloneria sbrigativa e per la cadenza più testaccina del solito, vuoi per l’inevitabile richiamo nostalgico alla Tripolitania fascista, nel singolo estratto può effettivamente strappare un sorriso.

Un sorprendente cambio di prospettiva

A dire il vero però, ciò che dovrebbe destare decisamente maggiore perplessità e che pare essere passato del tutto inosservato ai divertitissimi fruitori del video (forse troppo impegnati a sbeffeggiare il “nostalgismo” di Di Stefano), è il passaggio finale. Nello specifico, l’indignazione di Mario Prignano. Il giornalista del GRR, rimasto sgomento, afferma con tono secco ed inappellabile “Ma la Libia non è una regione dell’Italia, andiamo noi e decidiamo cosa succede lì? Siamo in terra straniera!”. Parole che nella versione integrale, vengono seguite a ruota da quelle del suo collega Giuseppe LeboffeE’ un’invasione sostanzialmente”.

A stupire, oltre al fatto che il candidato premier di CasaPound non abbia avuto la prontezza di imbastire un’opposizione servita sul proverbiale piatto d’argento, è lo sviluppo in seno al clero giornalistico di una grande sensibilità verso il destino del territorio libico. O meglio, una spiccata coscienza volta alla tutela della sovranità nazionale della Libia.

Nasci da incendiario, muori da isolazionista

Come mai questa presenza di spirito emerge a scoppio decisamente ritardato? Come mai emerge a sette anni di distanza dall’inizio del conflitto? La discrepanza tra le reazioni è lapalissiana e sorprende come all’epoca il circo mediatico di stampo liberal-progressista non solo non si oppose, ma caldeggiò con viva euforia l’intervento militare italiano nei confronti della Libia di Gheddafi. Restano memorabili, nonché facilmente riesumabili, le levate di scudi di Gad Lerner, che invitò ad ascoltare Obama quando parlava di “grande chance democratica”. Per non parlare dei proclami di Lucia Annunziata, la quale definì le primavere arabe “una cosa meravigliosa che l’Italia dovrebbe celebrare”.

Ebbene, la “cosa meravigliosa” e la “grande chance democratica” altro non fu se non un’invasione (quella sì) in piena regola. Un’invasione che oltre alla destituzione forzata di un leader locale, ha portato alla destabilizzazione di un intero stato, diventato ormai una polveriera inabitabile (attualmente sotto il ricatto delle bande armate islamiste), nella quale vivono oltre 400000 sfollati ed hanno trovato la morte 10000 civili.

All’epoca non ci fu nessun Prignano e nessun Leboffe ad indignarsi o ad ammonire le velleità interventiste dei loro colleghi, mentre oggi molti di quei soggetti riscoprono il loro lato oscuro e sovranista. Prestino attenzione, di questo passo rischiano di finire a votare CasaPound senza essersene nemmeno accorti.

Filippo Klement

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