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Un Salone del Libro per un popolo di analfabeti?

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Nella Torino ingabbiata da salotti e “casta di corto respiro”, ci sono cose di cui non si può parlar male, pena l’uscita dal consesso dei “ben parlanti”. Tra queste sicuramente il “Salone del Libro” (quest’anno andata in scena la 27esima edizione, dal 8 al 12 maggio scorsi). La correttezza politica e linguistica, però, come si sa, non è la nostra tazza di tè. Ci permettiamo, quindi, qualche considerazione non propriamente apologetica su questo “carrozzone del libro” (nel senso circense e giostraio del termine).

L’appena conclusa edizione ha registrato, annunciano giubilanti gli organizzatori, un incremento degli ingressi del circa 3% (339.752 rispetto ai 329.860 dell’edizione del 2013). I freddi numeri parrebbero descrive un successo. Se venissero scomposti (quante scuole? Quanti altri vari generi di “forzati del Salone”?), forse, la prosopopea calerebbe di molto.

L’eventomania (la Santa Sede come Paese ospite ha aggiunto un tocco di papolatria, senza una giusta sottolineatura del peso culturale ed esistenziale del Fatto cristiano) non fa bene alla cultura. Induce e produce banalità. Su tutti, a questo (s)proposito, ha brillato il Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, che si è prodotto, dimentico forse che la Rai è la principale azienda culturale di questo Paese, in un pippone contro la “Tv cattiva maestra che ruba spazio ai libri”.

Poco da salvare, quindi. Tra quanto è toccato in sorte a chi scrive, solo la presentazione anti-accademica e dissacrante di “Che ci importa del mondo” di Selvaggia Lucarelli, in cui l’autrice è riuscita a far dimenticare i fondamentalismi berlusconiano e juventino della sua spalla per l’occasione, Luca Beatrice.
Se valesse la proverbiale “prova del budino”, bisognerebbe dire, infatti, che eventi come il Salone servono a poco. L’Italia, dal 2011 al 2013, dicono le statistiche, ha perso oltre un milione e 300 mila lettori. Il libro (la sua lettura; se ne scrivono ancora troppi) è un’esperienza sempre meno praticata.

Se si allarga lo sguardo all’analfabetismo di ritorno, la questione si rivela ancora più grave. Sono, chiamando ancora in aiuto le statistiche, 13 milioni gli italiani che possono essere definiti tali. Cui vanno sommati altrettanti semi-analfabeti e circa 5 milioni di analfabeti totali.
L’analfabetismo di ritorno unito all’analfabetismo funzionale, ossia all’incapacità a usare in modo efficace le competenze di base (lettura, scrittura e calcolo) per muoversi autonomamente nella società contemporanea, nel nostro Paese tocca la quota del 47% della popolazione.

“Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni – spiega Tullio De Mauro, linguista e già Ministro dell’Istruzione – non sanno distinguere una lettera da un’altra, una cifra dall’altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare qualche cifra. Trentatré superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un’icona incomprensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20% della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”
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Insomma, ce n’è abbastanza per supporre che non serva, per risollevare le corti della cultura e della lettura, un Salone del Libro sempre più simile a quello del Mobile.

Marco Margrita
@mc_margrita

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Di Redazione Elzeviro.eu

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