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Un virus avvelena l’Italia da decenni: la stampa

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Che titolo è “nuovo record di morti in un giorno”? La sofferenza e il lutto come gara sportiva? Il gusto delle breaking news? O una manovra per far cadere il governo prima che gli effetti delle drastiche misure di contenimento comincino ad avere effetto?

A proposito. È passato un mese dal giorno in cui, nel disinteresse pressoché generale (e certamente delle autorità lombarde e leghiste, preoccupate solo di far sì che tutto continuasse come prima), fu individuato il primo caso italiano di coronavirus. Il divieto di spostamenti su tutto il territorio nazionale è in vigore dal 12 marzo e nei primi giorni molti se ne sono fregati.

Come oramai tutti dovrebbero sapere, il Covid-19 ha un periodo di incubazione intorno ai 14 giorni, alcune volte anche di tre settimane. Per cui davvero non si comprende per quale motivo ci si aspettassero risultati dopo otto giorni. E perché i giornalisti alimentino l’ansia delle gente, diffondendo come untori panico e irrazionalità.

La Corea, paese per molti versi simile al nostro, ha controllato l’epidemia con la disciplina, non con il terrore.

Il virus che da decenni avvelena l’Italia è la stampa; non solo tendenziosa e al servizio di miliardari e multinazionali ma anche tragicamente incompetente. D’altra parte per fare il giornalista non serve neanche saper scrivere: con qualche eccezione, il livello degli articoli è bassissimo, per contenuti e per stile.

Per non parlare dell’ignoranza, della superficialità, della disattenzione degli addetti ai lavori. Inevitabile che di fronte a una prova difficile come questa, giornali e telegiornali rivelassero il peggio di sé. Una moralità, una deontologia professionale non si improvvisano dopo un quarto di secolo di berlusconismo e di renzismo: il bene comune non c’è più, neppure come obiettivo o aspirazione, solo la brama individuale di successo, l’avidità di denaro, il conformismo consumista.

Quando se ne esce la prima riforma da fare è quella dell’informazione.

dr Francesco Erspamer

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