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Ritardi sul piano vaccinale: l’Italia raggiungerà l’immunità di gregge a marzo 2023

Il commissario straordinario per il potenziamento delle infrastrutture ospedaliere necessarie a far fronte all'emergenza COVID-19, Domenico Arcuri, in occasione della conferenza stampa a Palazzo Chigi sull'avvio dell'anno scolastico, Roma, 9 settembre 2020. Conte ha confermato che il ritorno in classe degli studenti a scuola Ë fissato regolarmente il 14 settembre dopo circa 6 mesi di chiusura delle aule a causa dell'emergenza sanitaria. ANSA/POOL/ROBERTO MONALDO

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A due mesi dal primo vaccino somministrato in Italia, a due mesi dal tanto acclamato Vaccine Day, l’Italia è ancora in alto mare con il piano che prevedeva l’immunità di gregge per la fine del 2021.


A gennaio era Giorgio Palù, il presidente dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), a rassicurare il governo e gli italiani:

Ce la possiamo fare, siamo ben attrezzati. Saremo in grado di vaccinare 2-300 mila persone al giorno e questo ci porterebbe in linea con le previsioni per la fine dell’anno.

Se a gennaio l’Italia era partita ai vertici delle classifiche, ad oggi conta 4,2 milioni di dosi somministrate, ovvero 100 mila persone che ricevono il vaccino ogni giorno – numeri che la posizionano al 43esimo posto per numero di dosi somministrate ogni 100 abitanti (dietro a Serbia, Ungheria e Cile). Il paese sta arrancando, con i numeri attuali si prevede il raggiungimento dell’immunità di gregge per marzo 2023 (supponendo che, a distanza di due anni da oggi, le persone attualmente vaccinate abbiano ancora gli anticorpi).

Un problema che sembra accomunare un po’ tutti gli stati membri dell’Unione Europea, dove la percentuale di popolazione vaccinata spazia dai 4,2 (in Germania e Spagna) ai 3,9 dell’Italia.
I numeri cambiano quando guardiamo Stati Uniti e Inghilterra, i quali contano rispettivamente 13,4 e 26,7 per cento di cittadini vaccinati.

I numeri riportati altro non sono che la rappresentazione dei problemi insorti durante la campagna vaccinale, problemi da imputare – come sostenuto dai vertici dell’UE – ai ritardi nella consegna delle case farmaceutiche. In Italia in particolare si è assistito a una riduzione del 60 per cento delle dosi di AstraZeneca già durante il governo Conte (dato positivo, se si considera che a fine gennaio l’azienda aveva annunciato un calo delle dosi per l’UE del 75 per cento per problemi nei propri siti produttivi).


Secondo le analisi più condivise

invece, il ritardo europeo è l’effetto di lunghi processi decisionali legati alla necessità di trovare un accordo fra i governi di 27 paesi, soluzione che ha consentito di ottenere il vaccino a un prezzo più moderato, rallentandone però a dismisura l’arrivo. Sempre in Italia, la campagna vaccinale sta subendo ritardi nella somministrazione; nelle strutture sanitarie italiane una dose su quattro rimane inutilizzata.


La Presidente della commissione UE von der Leyen, insieme ai leader degli stati membri – tra cui il nostro Mario Draghi – è però di un’altra idea. Le case farmaceutiche sono state infatti accusate di poca chiarezza nella stipula dei contratti con l’Unione (soprattutto AstraZeneca) e la proposta è quella di avviare un nuovo modello, molto più rigido, di accordi con le grandi aziende mondiali di farmaci. L’obiettivo è raggiungere trasparenza sui contratti, con la possibilità di condividere le licenze per ampliare il numero di siti di produzione.

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Di Eleonora Milani

Tirocinante presso Elzeviro.eu e studente dell'Università degli Studi di Torino.

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