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Ritorno al reale

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BAGATTELLE

Giuliano Ferrara ha fatto giustamente notare che il discorso al Parlamento di Giorgio Napolitano, in occasione del giuramento del suo secondo mandato presidenziale, è un pressante e fondato invito a “tornare alle realtà”. Il realismo, pur non godendo di buona stampa presso i novatori di tutte le generazioni e di ogni tempo, è una categoria politica irrinunciabile. Qualcosa in più di un atteggiamento, molto di diverso da un banale cinismo. La prima parola con cui deve fare i conti chi si avvicini allo studio (ma anche alla pratica) della politica è realpolitik.

Chi scrive, all’indomani delle elezioni, affidò alle colonne de “Il Laboratorio” una “perorazione per un Govenissimo di un de Talleyrand che sconfigga Pelagio”. Oggi le cose, con l’incarico ad Enrico Letta e l’agire da statista malgré lui del Cavaliere, potremmo dire che procedono verso quest’approdo. Al più, ecco, con l’ausilio di un nipote di de Talleyrand.

Il ritorno al reale è accogliere il compromettersi che chiunque voglia agire politicamente deve giocare. E non è una faccenda solo tecnica, ma ha la dignità della filosofia.Un ritorno che è proprio quello “scongelamento“, dalla rigidità del pregiudizio e del soggettivismo ideologizzato, che Enrico Letta ha chiesto ai grillini.

Nel 1943, le philosophe-paysan Gustave Thibon scrisse una fondamentale opera che proprio “Ritorno al reale” si intitolava. Vale la pena ripercorrerne alcuni passi. “Definire la libertà come indipendenza nasconde un pericoloso equivoco. Non esiste per l’uomo indipendenza assoluta (un essere finito che non dipenda da nulla, sarebbe un essere separato da tutto, eliminato cioè dall’esistenza). Ma esiste una dipendenza morta che lo opprime e una dipendenza viva che lo fa sbocciare. La prima di queste dipendenze è schiavitù, la seconda è libertà. Un forzato dipende dalle sue catene, un agricoltore dipende dalla terra e dalle stagioni: queste due espressioni designano realtà ben diverse. (?) A seconda del nostro atteggiamento affettivo nei loro confronti, i medesimi legami possono essere accettati come vincoli vitali, o respinti come catene, gli stessi muri possono avere la durezza oppressiva della prigione o l’intima dolcezza del rifugio. Il fanciullo studioso corre liberamente alla scuola, il vero soldato si adatta amorosamente alla disciplina, gli sposi che si amano fioriscono nei “legami” del matrimonio. Ma la scuola, la caserma e la famiglia sono orribili prigioni per lo scolaro, il soldato o gli sposi senza vocazione. L’uomo non è libero nella misura in cui non dipende da nulla o da nessuno: è libero nell’esatta misura in cui dipende da ciò che ama, ed è prigioniero nell’esatta misura in cui dipende da ciò che non può amare. Così il problema della libertà non si pon in termini di indipendenza, ma in termini di amore. La potenza del nostro attaccamento determina la nostra capacità di libertà. Per terribile che sia il suo destino, colui che può amare tutto è sempre perfettamente libero, ed è in questo senso che si è parlato della libertà dei santi. All’estremo opposto, coloro che non amano nulla, hanno un bello spezzare catene e fare rivoluzioni: rimangono sempre prigionieri. Tutt’al più arrivano a cambiare schiavitù, come un malato incurabile che si rigira nel suo letto”.

La sfida del Governissimo, oltre tutti i facili purismi ideologici, è quella di vivere in e di un legame libero con la realtà. Un amore per la realtà più che per gli schemi ideologici. Sapendo accogliere i compromessi e, quindi, l’altro non come nemico. “Per la consistenza futura della democrazia pluralistica e per lo sviluppo di una misura umanamente possibile è necessario riapprendere il coraggio di ammettere l?imperfezione ed il continuo stato di pericolo delle cose umane”, come disse (era il 1986) l’allora cardinal Ratzinger.

Dalla politica non viene la salvezza. La politica lavora per edificare, il meno peggio possibile, la “città dell’uomo”. A forza di compromessi. Con realisti Governissimi, del caso.

Marco Margrita@mc_margrita

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Di Redazione Elzeviro.eu

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