Dell’ennesimo dramma che si sta consumando in queste ore in Medio Oriente la cosa che più mi colpisce è notare come il dibattito si sia immediatamente polarizzato seguendo il medesimo schema che ha caratterizzato per decenni il conflitto israelo-palestinese.
di Antonio Di Siena
Nonostante siano cambiati talmente tanti attori che, almeno ai miei occhi, lo scenario appare profondamente diverso rispetto a quello che portò allo scoppio della prima intifada. L’unica costante è la sofferenza e l’aspirazione alla libertà dei palestinesi, rimaste immutate.
La differenza più grande rispetto ad allora sta nel fatto che oggi essere dalla parte dei palestinesi equivale a stare (piaccia o meno) con Hamas. Il che non è un dettaglio secondario, ma l’aspetto più attuale e centrale di tutta la vicenda. E fare finta che non sia così rischia di essere un ostacolo insormontabile a un dibattito pubblico che punta a promuovere il dialogo e soprattutto a trovare una soluzione pacifica.
E che, per quanto si sia da qualche anno formalmente distaccato da quella – in nome del presunto recupero della lotta di liberazione nazionale – resta un movimento dall’identità molto controversa. La recente (e molto poco credibile) svolta laica di Hamas, infatti, risulta in aperta contraddizione sia con le componenti maggioritarie al suo interno, di chiara ispirazione islamista.
Sia dalla sempre più evidente saldatura con la Turchia di Erdogan. Il Paese musulmano che, più di ogni altro, sta giocando una partita politica tutta incentrata sulla neo-islamizzazione del medio oriente sunnita.
Perché Hamas non è Fatah. L’ideologia di cui è espressione, la sua strategia, i suoi obiettivi e i suoi leader, non sono neanche lontanamente assimilabili né ad Arafat né al socialismo arabo. Certo, si potrebbe (non del tutto a torto) sostenere che il passaggio politico da Fatah ad Hamas – e l’enorme crescita di consenso di quest’ultima – sia stata causata principalmente da Israele.
Colpevole, con le sue politiche, di aver fatto il vuoto attorno ad Arafat e al modello di dialogo e coesistenza di cui si è fatto portatore dalla fine degli anni ‘80. Ma questa non mi sembra una motivazione sufficiente per appoggiare acriticamente una rivolta guidata da un movimento come Hamas, giudicato terrorista persino dai tanto vituperati tribunali egiziani…
Il mio invito, quindi, è a coloro che già da tempo si sforzano di analizzare il presente senza le lenti deformanti delle categorie novecentesche, affinché prendano atto che lo scenario israelo-palestinese è profondamente e irrimediabilmente mutato rispetto a trent’anni fa.
Il radicalismo islamico ha oramai definitivamente soppiantato, nei cuori e nelle menti dei giovani jihadisti, le battaglie laiche e socialiste che furono dei fedayyn dell’OLP. Così come dimostrano i roghi appiccati in queste ore alle Sinagoghe. Lo si accetti e si cominci a ragionare e a discutere di conseguenza.
Il che non significa passare armi e bagagli dall’altra parte. Mi sembra anche superfluo sottolinearlo. Ma dovremmo essere cresciuti abbastanza per capire che ogni volta che ascoltiamo una storia in cui ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, quella è, per l’appunto, soltanto una storia.