Ricorre il centenario della nascita del Partito Comunista Italiano (PCI). Si potrebbero dire tante cose (e le diremo), ma mi pare utile rammentare un fatto interessante: il PCI è stato senza dubbio il partito più “sovranista”, per usare un termine che oggi va di moda, del secondo dopoguerra.
Thomas Fazi
È infatti stato l’unico partito dell’arco costituzionale a votare contro tutti i trattati europei, dal Trattato di Roma del 1957, che istituì la Comunità economica europea (CEE), fino al Trattato di Maastricht del 1992 (per bocca, a quel punto, di Rifondazione Comunista).
I comunisti italiani, insomma, hanno sempre nutrito una profonda diffidenza, se non un’aperta avversione, contro ogni ipotesi di “annegamento” dello Stato italiano in una qualsiasi istituzione sovranazionale europea.
E questo perché avevano ben chiaro che solo all’interno del perimetro dello Stato democratico nazionale le classi subalterne avevano qualche speranza di poter migliorare le proprie condizioni, e che i processi di sovranazionalizzazione politico-economica avevano lo scopo preciso di eludere il processo democratico e porre così le leve della politica economica al riparo dall’influenza delle masse lavoratrici. Come poi è stato.
Il fatto che oggi la critica radicale della UE
e dell’euro – altresì noto come “sovranismo” – sia considerata una postura di destra, soprattutto dalle persone di sinistra, che con poche eccezioni hanno abbracciato l’europeismo più sfrenato, è la dimostrazione plastica della mutazione antropologica, ormai irreversibile, della sinistra contemporanea.
Che ormai con la gloriosa tradizione del movimento socialista e comunista non ha veramente più nulla a che vedere. E anzi ne è diventata l’antitesi.
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