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Domenico Quirico: «la guerra siriana è il fallimento del giornalismo»

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TORINO – Non perde tempo Domenico Quirico e non appena arrivato alla biblioteca civica Primo Levi per presentare il suo nuovo libro “Il Paese del male”, si rivolge al pubblico:

“Con questo libro cerco di dare una vita autonoma alla mia storia, un giornalista deve raccontare le storie degli altri, non la propria. Per questo l’ho messa su carta, per staccarla da me e farla esistere nelle menti dei lettori, i libri sono creature che hanno diritto di vivere o l’obbligo di morire a seconda della loro forza, sono come i bambini che nascono e poi fanno il loro percorso indipendentemente dai genitori”.

Quella che Quirico ci racconta, è come egli stesso afferma, una storia irrilevante e a lieto fine, all’interno di una terribile guerra.

Il rischio è che l’attenzione si fermi al suo racconto, oscurando la situazione drammatica della Siria, invece che far luce su essa.

La tragedia siriana secondo Quirico, rappresenta il fallimento del giornalismo che non è riuscito a porla come questione centrale e a suscitare le collettive coscienze, passaggio indispensabile perché nasca l’attenzione e poi una reazione.

“Creare commozione con le parole, questo ciò che un corrispondente di guerra deve fare, suscitare una forma di esperienza che oggi è rifiutata e che consideriamo come una debolezza, commettendo un grave errore. Essa è l’obbligatorio passaggio dall’esperienza alla coscienza del medesimo, la testimonianza che diventa condivisione”.

Lei parla di commozione come unico modo per coinvolgere i cittadini. Ma questa commozione riesce a provocare qualche lacrimuccia, non una reazione tanto forte da portare all’azione. E’ semplicemente colpa del nostro tempo, oppure in passato essa ha funzionato?

“Forse siamo noi che non siamo in grado di provocarla, è nostro compito riuscire a portare i lettori nei luoghi dove siamo stati per commuoverli e se io non ci riesco non affibbio la colpa al nostro tempo, ma a  me stesso.

Questo meccanismo ha funzionato nel passato: ci sono guerre su cui la televisione e i giornali hanno avuto influsso diretto, come nella guerra del Vietnam.

Gli Americani non si sono ritirati perché avevano perso, ma perchè i giornalisti, i fotografi ed i teleoperatori hanno messo gli Usa di fronte a cosa era davvero quella guerra e l’opinione pubblica ha capito che vincerla richiedeva azioni incompatibili con la coscienza del loro Paese. Successe lo stesso anche tra Francia e Algeria, i francesi rifiutarono di accettare una storia discordante con il loro passato. Continuo a credere personalmente, che non sia un problema della sensibilità del lettore, ma una incapacità di chi racconta, con diversi strumenti. 

Nel caso siriano non siamo riusciti a compiere questa operazione: trasformare questi numeri in esseri umani.
Si contano 130 000 morti in questa guerra, vittime senza divisa, la maggior parte rimasti senza voce. 

 

Ma come gridavano quei 130.000 morti? I numeri non chiedono giustizia, non chiedono pietà e non gridano. Compito dei giornalisti di guerra è dare fisicità a quei numeri, restituirgli l’identità: i loro desideri, sogni, pregiudizi, ciò che erano e ciò che non sono diventati”.

C’è quindi una responsabilità morale in ciò che si scrive e in ciò che si sceglie di non scrivere, un rapporto causa ed effetto con le storie raccontate, con le persone che le vivono. In questo rapporto risiede l’essenza dell’esistere dei giornali, il loro scheletro morale.
Per raccontare il dolore umano, bisogna “passare attraverso la condivisione di quell’esperienzaripete Quirico con voce roca nel suo intervento, “ho diritto di prendere in mano la delicata fragilità del loro dolore solo se soffro con loro, rischio con loro e provo su di me la loro stessa disperazione. In quel momento acquisisco diritto di raccontare il loro dolore, altrimenti non ce l’ho. Devo potere dire loro: io ero con te”. Un rapporto di lealtà con la vittima e pure con il carnefice, è ciò che va instaurato, perchè in ogni storia c’è il bianco e il nero ed entrambi i colori non possono essere esclusi. 

Quirico ebbe la “fortuna” di potere testimoniare il buio di queste storie, un’oscurità che è viva e non può essere tralasciata, per raccontarci oggi la luce presente in esse. Fu sequestrato nel 2011, durante la battaglia di Tripoli, dai complici del tiranno e riscontrò che persino lì poteva esserci umanità, poteva mostrarsi la “banalità del bene”, come afferma il giornalista citando Grossman e l’episodio della vecchina russa, di nero vestita, che dona un pezzo di pane ad un malconcio soldato tedesco nella resa della sesta armata tedesca a Stalingrado.

“Nelle guerre civili tutto è mescolato, gli eroi ai i briganti, gli idealisti agli assassini, persone che diventano tali per coerenza con il loro passato orribile, ma che è pur sempre l’unico che hanno, oppure perché si sono trovati dalla parte sbagliata”.

Ma anche l’altra parte dunque, ha bisogno di essere raccontata: “tutte queste storie denotano l’immensità del male e della sua banalità, ma ho trovato anche esempi straordinari della banalità del bene. Ci sono stati Hutu che hanno nascosto i Tutsi, rischiando la loro stessa vita”.

A questo punto, un’altra domanda. 

Se la Russia non si fosse intromessa, anche a livello mediatico, quale sarebbe ora la situazione siriana?

 

Le chiavi della tragedia siriana sono a Mosca, che sostiene Bashaar, in quanto la Siria costituisce per la Russia, non un capitolo di politica estera come appare, ma un capitolo della sua politica interna.

Sono stato in Russia per le elezioni presidenziali e ho potuto notare il consenso di massa che detiene Putin, perché ha promesso il ritorno a dignità di grande potenza al Paese e per fare questo la Siria è fondamentale, basti pensare al porto di Tartus, ultimo addentellato di quella storia. 

“L’ Orso che ha imparato a nuotare”, non può perdere la Siria a nessun prezzo.

In tutto ciò l’Occidente sta a guardare, come nella prima rivoluzione siriana, che abbiamo tradito per viltà, come è stato fatto nella guerra civile spagnola del 1936 ad esempio, dove Franco era aiutato dalla Germania e dall’Italia che erano le potenze dittatoriali di allora, mentre i ribelli furono ignorati dalle potenze democratiche di Francia e Inghilterra, con il risultato che ci misero sei anni per eliminare le potenze dittatoriali e a caro prezzo.

Se l’America fosse intervenuta, dotando i rivoluzionari siriani di armi moderne per fronteggiare l’esercito più forte d’Oriente, che ha fatto tremare anche Israele, allora forse anche Mosca avrebbe accettato la costruzione di un regime diverso. Questi rivoluzionari volevano semplicemente costruire un Paese che fosse il contrario di ciò che era, ma oggi non ci sono più, perché sono stati spazzati via dall’armata siriana. Erano studenti universitari, commercianti, contadini e adesso al loro posto ci sono le brigate islamiche, che non vogliono eliminare semplicemente Bashaad, ma vogliono un califfato in Siria. L’Occidente capisca che non esiste l’Islam moderato e che la rivoluzione non è ideologia, ma passione.

 

Signor Quirico, il mestiere del cronista di guerra è andato verso una morte lenta: nei teatri di guerra che ha conosciuto, ha visto più giornalisti scrivere delle proprie esperienze dirette oppure raccogliere testimonianze da dietro una scrivania? 

 

Non mi ero mai occupato della Siria e quando mi telefonarono per chiedermi di farlo, io chiesi perché mandare me.
Mi dissero: “vai a Beirut e senti delle testimonianze, noi ti diciamo cosa è successo attraverso le agenzie”, a quel punto risposi: “avete sbagliato numero di telefono, scrivo della Siria solo se vado in SIria”.  

Scrivo di qualcosa in cui sono, regola elementare di questo mestiere, che ormai non si può più fare. Il 95% degli articoli sulla Siria, sono scritti da gente che non ci ha mai messo piede, o ci è andato da turista quando ancora si poteva, strano a dirsi, solo tre anni fa.

Ho visto pochi giornalisti e molti fotografi, sopratutto freelance, perché ovviamente non esiste teleobbiettivo per fotografare da così lontano, mentre puoi scrivere bellissimi pezzi sulla Siria, stando da tutt’altra parte. Io vi racconto solo ciò che vedo, una realtà piccola, ma autentica. Il giornalismo lo faccio in questo modo, pagando anche di persona, come si faceva prima della guerra in Iraq.

L’idea degli editori, per risparmiare palanche, è quella di poter fare i giornali utilizzando internet senza attenersi a nessuna esperienza, perché costa meno che mandarci in Siria. Questa deriva è anche imputabile alla nostra categoria, che ha accettato le nuove regole senza curarsene, perché tanto “i guai toccheranno a quelli che verranno dopo”, anche questa è una nostra colpa”.

 

Iniziativa promossa da LIBRIinQUARTIERE, potete consultare le prossime al seguente link:

https://www.facebook.com/pages/LA-CASA-DELLE-NOTE/174081442663320


Allegra Romana

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Di Redazione Elzeviro.eu

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