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Il profetico Pound e la sua incalzante poesia. (La conferenza/ il VIDEO)

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di Freddie e Gabriele Tebaldi
LA CONFERENZA “LEGGERE I CANTOS – ‘QUANDO L’ECONOMIA SI FA POESIA'” SI E’ TENUTA IL 25 OTTOBRE PRESSO L’EDUCATORIO DELLA PROVVIDENZA DI TORINO.

Abbiamo assistito nella giornata di ieri alla lettura dei Cantos di Ezra Pound, un incontro che si è sviluppato nell’arco di due ore e mezza, al quale sono intervenuti tra gli altri Luca Gallesi, Stefano Bove e Luca Borrione.

Il consistente numero di persone presente all’incontro è indice del tasso di curiosità che spinge all’avvicinamento verso un poeta bistrattato dalla cultura dominante. Eppure Pound è stato un maestro per Joyce, Eliot e lo stesso Hemingway, grazie alle sue incredibili innovazioni in campo poetico; ma nonostante questo ha continuato e continua tutt’ora a non godere di buona fama.

La lettura frontale dei Cantos, raccolta di versi poundiani incompiuta, ci ha mostrato tutte le straordinarie caratteristiche dello stile di questo poeta: molteplici citazioni epiche e classiche, segno di una vastissima cultura, associate a uno stile sempre incalzante, volto a incentrare l’attenzione non solo sulla tragicità della guerra, ma anche sui suoi colpevoli.

Secondo Pound infatti la guerra non è dettata dal fato e dal “regolare” scorrere degli eventi, essa fa invece parte di un piano ben collaudato da parte degli “usurai internazionali“, ovvero quei personaggi accecati dalla sete di denaro che nell’ombra manovrano i movimenti di capitale nel mondo, con lo scopo di arricchirsi, di fatto affamando le popolazioni.

Alla conclusione di questa prima lettura è seguita una seconda parte dell’incontro incentrata sul saggio di Luca Gallesi intitolato “C’era una volta…l’economia“. Un’opera che passando anche attraverso le favole di Mary Poppins e del Mago di Oz riesce a dare l’idea di quello che era il profondo pensiero poundiano riguardo all’economia. Un pensiero ben al di là degli elementari schemi di domanda e offerta “imposti” nelle aule universitarie, dato che in esso viene posto un interrogativo che non può che essere più attuale: chi crea la moneta e chi ne è il padrone?

In un periodo storico in cui i debiti pubblici sovrani pesano come un macigno sulla testa di popolazioni affamate, forse la risposta a questo quesito potrebbe aiutare la rinascita degli “uomini liberi”.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=2fUEYs3TsFA]CANTO I

Poi scendemmo alla nave,e la chiglia tagliò il divino maredrizzammo l’albero e le vele della nave negra,a bordo portammo pecore e i corpi nostricarichi di lacrime, e il vento in poppaci avviò con panciute vele,di Circe benecomata arte fu questa.Poi sedemmo sulla nave, correndo col ventoa vele tese sino a sera.Spento il sole, ombra sull’oceano,noi venimmo al limite delle acque profonde,alla terra dei Cimmeri, e città popolose,sovra tessuta nebbia fitta, mai straledi sole la trafiggenè rotando alle stelle, nè tornando dal cielo,notte fosca copre quella misera gente.L’oceano in moto contrario, noi venimmo al luogopredetto da Circe.Qui Euriloco e Perimede compiron riti,traendo la spada dal fiancoscavai il fosso di un cubito quadro;ad ogni morto spargemmo libagioni,Idromele, poi vin dolce, acqua con bianca farina.Molte orazioni mormorai sulle inferme teste dei morti:come d’uso, giunto ad Itaca, i migliori bovisacrificherò, ammassando beni sulla pira,e al solo Tiresia un nero campano.Sangue scuro scorreva nella fossa,anime dell’Erebo, morti cadaverici, schiere di spose,di giovani e di vecchi provati dagli affanni;anime ancor macchiate di fresche lacrime, blande fanciulle,uomini molti, dalle teste tartassate da lance di bronzo,predati in guerra, ma pur recanti sanguinose armi,mi s’affollarono intorno, urlando,impallidii, gridai ai miei uomini per altre bestie;trucidarono i greggi, pecore colpiron con bronzo;versai unguenti, invocai gli dei,l’immane Plutone, lodai Proserpina;a spada sguainataallontanai gli impetuosi ed impotenti morti,fino ad udir Tiresia.Ma prima venne l’amico Elpenor,l’insepolto, gettato sulla terra lata,salma abbandonata in casa di Circe,non pianto, non sepolto, ché altro urgeva.Miserando spirito. E io gridai affrettato:”Elpenor, come giungesti all’oscura sponda?Hai preceduto a piedi i rematori?”Ed egli con parlar lento:”Malo fato e molto vino. Dormii presso il fuoc di Circe.Scendendo caddi per la lunga scalacontro il barbacanerompendomi l’osso del collo, e l’anima cercò l’Averno.Ma vi prego, sire, ricordatevi di me, non pianto e insepolto,ammucchiate l’armi mie, la tomba sul lido porti:Misero fu, ma con fama futuraE sul tumulo s’innalzi il remo mosso tra i compagni”.Venne Anticlea, che tenni lontana, poi Tiresia di Tebe,tenendo l’aurea verga, mi riconobbe e per primo parlò:”Una seconda volta? Perché? Uomo di torva stella,visiti i morti senza sole e questo regno infausto?Via dal fosso, fa ch’io beva il sangue,e vaticini.”Ed io indietreggiai,ei, forte di sangue, disse: “Odisseotornerà pur Nettuno contrario, sovra mari oscuri,perderà tutti i compagni”. Anticlea rivenne.Taccia ormai Andreas Divus (che cito).In officina Wecheli (stampato) A.D. 1538, da Omero.Oltrepassò le Sirene, lungi da lìsino a Circe.”Venerandam”.In stile cretense, con l’aurea corona, “Venerem,Cypri munimenta sortita est”, gioconda, oricalca,auree cinte alla vita e ai seni, palpebre di bistro,che portò il ramo d’oro dell’Argicida. Si che:

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Di Redazione Elzeviro.eu

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