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Il Concilio Vaticano II e il grande equivoco della comunità cristiana

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Il concetto di parrocchia intesa come comunità cristiana e le implicazioni non sempre coerenti di una visione che si rifà alle prime organizzazioni cristiane della storia.

 Il Concilio Vaticano II indetto da Papa Giovanni XXIII è stato senza dubbio un evento storico nella storia della Chiesa, un evento che in qualche modo ha dato una sferzata di novità e al tempo stesso una sterzata agli austeri paradigmi dogmatici che avevano in qualche modo ingessato fino ad allora il messaggio evangelico. Un messaggio evangelico reso non solo più decifrabile dalla coscienza dell’uomo contemporaneo ma anche più attualizzato rispetto all’evoluzione del pensiero umano.

Tutto questo venne portato avanti con lo scopo di rendere più intellegibile e in definitiva più appetibile la Parola di Cristo per un’umanità sempre più lontana e sempre più risucchiata e legata dai meccanismi della società consumistica da una parte e di quella del socialismo reale dall’altra. Un’operazione questa molto delicata che avrebbe portato nel suo grembo il rischio elevato di banalizzare e al tempo stesso “mondanizzare” eccessivamente quello stesso messaggio che si voleva invece rendere più vivo. Al centro del pensiero del Concilio c’è una rivisitazione e una riattualizzazione del concetto stesso di Comunità cristiana, concepita e identificata con le strutture parrocchiali all’interno delle singole Diocesi. Parrocchia intesa non più e non solo come luogo deputato alla celebrazione della Santa Eucarestia, ma intesa, riallacciandosi in questo alla tradizione delle prime comunità cristiane, come vera e propria “Famiglia di Dio, fraternità animata dallo spirito di unità“.

 Questo ritorno ad una concezione proto cristiana avrebbe dovuto offrire un “luminoso esempio di apostolato comunitario, fondendo insieme tutte le differenze umane che si trovano e inserendole nell’universalità della Chiesa“. Una concezione questa in apparenza di semplice decifrazione ma, a nostro giudizio, più facile a dirsi che a farsi, soprattutto se teniamo conto di una realtà sociale che ormai si regge su parametri lontani anni luce da quelle che appunto erano le prime comunità cristiane, quelle, tanto per intenderci, che vivevano all’interno delle catacombe sotto la minaccia continua della persecuzione e con l’unica arma-collante sociale a loro disposizione rappresentata da una fortissima fede comunitaria.

Queste comunità non potevano prescindere da un modello di vita totalmente e radicalmente “condivisorio“, in cui tutto quello che accadeva a livello individuale non poteva non coinvolgere l’insieme dei fratelli in Cristo. Ora, tentare di riproporre un modello simile a distanza di due millenni e soprattutto in un contesto storico totalmente avulso da quelle condizioni estreme dei primi Cristiani, se da un lato rappresenta un pur lodevole tentativo di recuperare lo spirito originario di un Cristianesimo meno di forma e di facciata e più orientato alla fratellanza e all’unione sostanziale dei fedeli in Cristo, dall’altro rischia di rimanere sul piano delle mere enunciazioni di principio, perché delle sua possibile attuazione mancano le basi storiche e sociali.

 Nelle nostre parrocchie infatti non si può riproporre, proprio perché largamente utopistico, lo spirito che animava le catacombe dei primi proto martiri cristiani. Ne mancano totalmente le condizioni iniziali. Semmai sarebbe utile in un’ottica di recupero realistico dello spirito cristiano,ricordare ai fedeli i loro doveri di fratellanza e di amore nei confronti dei fratelli che sono nel bisogno, anche se esterni alla parrocchia stessa. Ma per far questo non è necessario secondo noi rifarsi ad un concetto per certi versi anche ingombrante e condizionante di una comunità invadente della sfera privata e in un certo senso condizionante la vita dei fedeli. Un concetto questo della comunità che sembra confondere il concetto appunto di fratellanza universale con quello di irreggimentazione dell’individuo all’interno di un concetto mal digeribile di collettivismo di intenti forzato e proprio per questo poco rispettoso della sfera privata dell’individuo, collettivismo che appunto differenzia e non poco il concetto di socialismo da quello di amore cristiano.

Ragionare in termini di comunione effettiva di vita all’interno dei quartieri delle nostre città vuol dire bypassare quello che è il problema più grosso: quello della mancanza di rispetto della sacralità della vita umana in generale. Se non risolviamo prima questo, tutto il resto rischia di diventare semplicemente banale, aria fritta, disquisizione dialettica senza prospettive. Questa della difesa della vita è la prima battaglia che un cristiano deve combattere, non solo all’interno della parrocchia ma soprattutto all’esterno dei suoi un po’ tranquillizzanti confini. Con il concetto di comunità imposta sembrerebbe essersi anche confuso l’ambito della comunità spirituale dei Cristiani con quello altrettanto rispettabile della spontaneità e assoluta libertà dei rapporti umani, i cui legami non possono svilupparsi se non in un ambito di scelta libera e non condizionabile: in parole povere il concetto di amicizia con tutte le implicazioni anche sociali che ne conseguono non può vedersi limitata la sua sfera di legittima libertà d’azione entro i meccanismi di una concezione quasi moralmente coercitiva e per questo in qualche misura invasiva della sfera libera dell’individuo.

 Sulle conseguenze spesso anche spiacevoli e fuorvianti della nuova concezione comunitaria che vede appunto la comunità cristiana come una sorta di moloch ineliminabile all’interno della quale tutta la vita del Cristiano deve non solo esprimersi ma anche esaurirsi, posso citare un aneddoto che ha visto il sottoscritto protagonista e vittima qualche anno fa. Una Domenica io e mio figlio dopo essere andati a giocare a calcio, vestiti con tuta e scarpe da ginnastica, siamo andati alla Messa delle 12 nella nostra chiesa, Messa, è il caso di ricordare, di tutta la comunità. Appena entrati ci siamo accorti che si stava celebrando, all’interno della Messa stessa, un matrimonio. Matrimonio tra due parrocchiani che onestamente non conoscevamo e che, al di là di una preghiera di auguri per gli sposi, non poteva coinvolgerci più di tanto.

Ebbene, siccome il sottoscritto da lontano non ci vede benissimo, io e mio figlio, come era nostro sacrosanto diritto, ci siamo seduti, non nei primissimi posti per educazione, ma nella quarta o quinta fila dei banchi, non lontani dai parenti degli sposi, vestiti ovviamente con ben altri abiti rispetto alle nostre tute dignitose ma un po’ infangate. E’ bastato questo esercizio di un diritto sancito dalla Chiesa stessa, ovvero quello di partecipare liberamente al Rito domenicale, per scatenare la reazione di sguardi assassini, di tutti i partecipanti al matrimonio che si sentivano in questo modo offesi dal nostro abbigliamento non proprio consono ad un matrimonio a cui, lo giuro, non volevamo partecipare, ma al quale, ob torto collo, abbiamo dovuto assistere, per non perdere la Messa. Ecco in questo episodio salta fuori tutta la mancanza di realismo e di concretezza di una visione che finisce inevitabilmente con lo scontrarsi con la realtà dei fatti, una realtà che è ben diversa dalle pur lodevoli intenzioni di un Concilio così importante nella storia della Chiesa.

di Roberto Crudelini

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Di Redazione Elzeviro.eu

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