In Italia il 60% meno abbiente detiene appena il 13% della ricchezza nazionale. Ma allora perché gli intellettuali antisistema, prima di teorizzare ambiziose rivoluzioni su scala internazionale, non si concentrano sulla necessità di una redistribuzione all’interno dei nostri confini?
di Pierluigi Fagan
Se prendete i dati di ricchezza nazionale complessiva e li dividete per la popolazione avrete il Pil pro-capite, un semplice indicatore statistico alquanto brutale che ha anche una versione più statisticamente sofisticata che è quello dell’indice di Gini ovvero l’indicatore dell’indice di diseguaglianza sociale interna alle singole società.
A dati IMF 2018, il Pil pro-capite degli Stati Uniti d’America è più o meno della stessa fascia di Norvegia, Islanda, Danimarca e Svezia, il quartetto nord europeo che da anni ed anni risulta sempre ai primi quattro posti di vertice per indice di democrazia e felicità.
L’Italia, non solo ha un valore medio statistico di poco più della metà, ma per indice di uguaglianza interna, in Europa, è al 23° posto su 27, il 60% meno ricco detiene solo il 13,3% della ricchezza nazionale.
Vi potreste domandare allora perché mai in Italia i critici teorici del sistema continuano a parlare di uscita dal capitalismo o dall’Unione e dall’euro, quando come minimo potrebbero almeno cominciare col porre sotto accusa l’iniquo modo di ridistribuirci la ricchezza internamente, che è cosa che dipende solo ed esclusivamente da noi.