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Le ricette del femminismo in piena emergenza economico-sanitaria: quote rosa e lotta al body shaming

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Di fronte alla peggiore recessione del dopoguerra che a breve colpirà ogni settore (e quindi anche ogni donna), il femminismo radicale mostra ancora una volta tutta la sua inconsistenza culturale, invocando a gran voce le quote rosa nelle task force e indignandosi per gli sfottò verso Giovanna Botteri.

 

Se fossimo proprio costretti ad indicare una controindicazione positiva generata dall’epidemia di Covid-19, eccezion fatta naturalmente per la parziale depurazione ambientale, questa andrebbe ricercata nella salute del dibattito pubblico e politico. Negli ultimi due mesi e mezzo dell’anno più nefasto del dopoguerra infatti, il virus è riuscito nell’impresa di polarizzare l’interesse della società civile e dei principali esponenti delle istituzioni, azzerando – in modo pressoché totale – le vacue polemiche demagogiche e finendo per forgiare un sistema politico-mediatico esclusivamente focalizzato su qualcosa di impensabile fino a poco tempo fa: la realtà.

Il premier, i ministri, i parlamentari di maggioranza e di opposizione, i telegiornali, gli opinionisti, i talk show e perfino i canali sportivi si sono trovati costretti a dimenticare tutto il resto: per due mesi ci si è occupati solo della pandemia mondiale. Un evento tangibile e concreto, un ostacolo che ha messo a repentaglio in modo evidente la salute e la sicurezza di chiunque. Una piaga che, in buona sostanza, ha obbligato il sentire comune a fare quadrato, disinteressandosi di tutte le  calamite da visualizzazioni e tutti gli spot elettorali spacciati per battaglie di civiltà.

Il ritorno dei mulini a vento

Ciononostante, esattamente come nelle epidemie virali, sembra esistere una categoria residuale di soggetti immuni a questo particolare cambiamento. Loschi figuri che, per una sorta di impulso biologico, proprio non riescono a fare a meno dei mulini a vento.  Dopo una prolungata esposizione alle radiazioni della realtà, è come se sentissero il bisogno ineludibile di discostarsene, attraverso la costruzione di futili sottotrame polemiche destinate a dividere la società in fazioni di facinorosi; nello specifico, polemiche architettate sulla base di pretesti forzati, con l’unico obiettivo di sensibilizzare la popolazione verso crociate fondate su giudizi morali ad alto carico di soggettività.

All’interno di questa categoria di subdoli intolleranti sospinti dalla brama di imporre all’universo-mondo la propria morale (alla stregua di un califfo qualsiasi), non v’è dubbio che femministe e femministi abbiano sempre recitato un ruolo di primissimo ordine.  Un fatto corroborato, casomai ce ne fosse ancora bisogno, da due delle più chiassose levate di scudi degli ultimi giorni.

Le task force “patriarcali”

La prima concerne un’imperdonabile affronto discriminatorio avvenuto nelle (nuove) stanze del potere: l’assenza della parità di genere nella composizione delle task force istituite per il contrasto al coronavirus.  Una “battaglia culturale” di cui si è naturalmente fatta promotrice Laura Boldrini, attraverso una apposita interrogazione parlamentare, ma alla quale si sono in seguito accodate diverse attiviste con iniziative di ogni tipo, dalle petizioni ai falsh mob telematici.

A lasciare annichiliti, ancora una volta, è la nonchalance con la quale il femminismo 2.0 continua imperterrito a mettere nel mirino nemici nebulosi, per non dire del tutto astratti. Mostri inconsistenti, fatti di retorica e fumo, di numeri  e fredde statistiche, senza alcuna attinenza con le ingiustizie socioeconomiche che le donne italiane (così come i tanto bistrattati uomini) stanno vivendo sulle proprie pelli.

I risultati delle task force

Rimanendo solo sul versante rosa – non sia mai – migliaia di imprenditrici rischiano il fallimento delle loro attività, a causa della mancata erogazione di quei prestiti che dovevano essere, in quanto garantiti dallo Stato, delle mere formalità;  migliaia di lavoratrici autonome sono prese per fame a causa dell’inconsistenza, del ritardo o del mancato bonifico dei famosi 600 euro (di Marzo);  migliaia di lavoratrici dipendenti non hanno ricevuto la cassa integrazione in deroga, oppure hanno ricevuto solo la cifra dovuta dal loro datore (magari datrice) di lavoro; tutte le categorie summenzionate, come se non bastasse, non hanno beneficiato di alcuna sospensione dei canoni di locazione o delle bollette, senza contare i rincari criminali di molti beni di prima necessità.

Pur essendo lampante  come questa bomba sociale pronta a detonare sia il prodotto dell’inadeguatezza dell’agenda governativa (e di conseguenza delle task force), ecco che le fondamentaliste rosa confermano nuovamente la loro inconsistenza culturale, osservando un dito mai così distante dalla luna. Loro non si mobilitano per protestare contro un apparato contorto, complesso, costoso e ai fatti inutile, invocandone lo scioglimento: macché. Loro si indignano perché in quell’apparato che sta compromettendo l’esistenza di migliaia di donne, mancano le quote rosa. Insomma, una mancata sintonia di genere tra le vittime e i carnefici.

Il “body shaming”

Veniamo ora alla seconda levata di scudi. Un’altra imprescindibile battaglia culturale, che per contenuti e toni della polemica, sembra confezionata ad hoc per i settimanali scandalistici da sfogliare nel salone dell’estetista. L’intollerabile affronto riguarderebbe un servizio di Striscia la Notizia, nel quale i conduttori del programma di Antonio Ricci hanno osato ironizzare (a dire il vero, in modo abbastanza infantile) sul look della corrispondente Rai Giovanna Botteri. Quello che, come si conviene ad una buona colonia americana d’oltremare, è stato subito ribattezzato “body shaming”.

Ferma restando la scarsa originalità del servizio, ed in generale la puerilità di tutte le battute sull’aspetto fisico una volta oltrepassati i corridoi del liceo, l’unica accusa che si può muovere a Mediaset è quella di stipendiare autori dal sarcasmo piuttosto scadente. Perché a ben vedere, la sensibilità nei confronti del “body shaming” non sembra essere diffusa ed applicata in modo trasversale; anzi, a dire il vero, sembra paradossalmente sottendere un retrogusto discriminatorio.

Avete mai sentito, ad esempio, soffiare il vento della polemica per il “body shaming” nei confronti di Renato Brunetta? Avete mai sentito la brezza dell’indignazione popolare per il “body shaming” nei confronti di Giuliano Ferrara? Dare del nano o del ciccione, rispettivamente, ad un uomo di bassa statura e ad un obeso sarà ben etichettabile come “body shaming”, no? Senza considerare come questo tipo di sarcasmo, finisca per prendere di mira handicap non certo considerabili (del tutto o in parte) frutto di una scelta personale; a differenza del look della Botteri, la quale, piaccia o meno, può decidere con piena consapevolezza di mostrare un guardaroba monotono ed una capigliatura trasandata sul servizio pubblico.

I demeriti sono altri e non vanno dimenticati

A dirla tutta invero, l’aspetto più spiacevole di tutta questa vicenda carica di ipocrisia, è il risultato finale: l’involontaria trasformazione di una giornalista piena di scheletri nell’armadio in una vittima del patriarcato. Un’operatrice dell’informazione faziosa e spudoratamente orientata, come dimostra la sua ormai tristemente celebre tirata d’orecchie al popolo bue che aveva osato premiare Trump, anziché  “una stampa mai così compatta contro un candidato”; finendo poi per chiedersi dove andremo a finire se la stampa non riesce più “ad influenzare l’opinione pubblica”.

Un’operatrice che dopo aver contribuito in modo deciso alla fake news più eclatante del 2020 (l’ennesima morte di Kim Jong-Un, basata esclusivamente su ipotesi e congetture), non ha ancora avuto il pudore di ammettere il proprio errore marchiano, preferendo nascondere la chilometrica coda di paglia dietro ai dubbi sull’autenticità delle recenti immagini del leader nordcoreano. Un’operatrice dalla conclamata inattendibilità insomma, che rischia ora di essere compatita per una futile vicenda di abbigliamento e (mancata) messa in piega.

La morale è che molte donne oggi rischiano di morire di covid o più probabilmente di fame. In compenso, grazie alle suddette battaglie di genere, al loro funerale potranno partecipare le quote rosa di quelle stesse task force che, nel frattempo, avranno contribuito ad affamarle; e magari, sulla loro lapide potrà essere inciso il glorioso epitaffio “sensibile al dramma delle pessime giornaliste che si conciano da racchie”.

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Di Filippo Klement

Classe 1990, ha studiato giurisprudenza, a latere un vasto interesse per la storia contemporanea e la politica.

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