Il tennista serbo Novak Djokovic, il numero uno al mondo, è la pietra di uno scandalo internazionale di cui fra gli altri ci dà diligente notizia il Corriere della Sera orientata in direzione antiserba.
di Massimo Fini
Quali sono le colpe di Djokovic? In un servizio di Al-Jazeera Djokovic è stato ritratto in una serie di foto “a una festa, scherzoso con Milorad Dodik, il leader serbo bosniaco, uno che nega i novemila massacrati a Srebenica e considera un eroe Ratko Mladic, il macellaio condannato all’Aja per genocidi.
Novak abbracciato a Srdjan Mandic che faceva da segretario al criminale di guerra Radovan Karadzic e alle sue pulizie etniche.
Novak accomodato con Milan Jolovic, il comandante dei feroci Lupi della Drina, il lupo che i serbo-bosniaci chiamano The Legend, leggendario perché salvò la vita a quell’altra belva di Mladic”. Ma forse la colpa più grave di Djokovic è di aver detto: “il Kosovo è serbo, nessuno può strapparmi il Kosovo dall’anima. Purtroppo ci sono poteri che non si possono combattere”.
Che un serbo sia pur famoso
quand’è in vacanza nella sua terra frequenti amici serbi nessuno dei quali è stato condannato per “crimini di guerra” dal pur prevenuto Tribunale internazionale dell’Aja non ci sembra cosa strana. La vera colpa di Djokovic è di esser serbo e di coltivare sentimenti serbi in contrasto con quella informe, ma potentissima “comunità internazionale” di cui sono magna pars gli Stati Uniti che in modo del tutto arbitrario decide chi sono “i cattivi e i buoni” del mondo.
Per capire l’importanza simbolica, ma anche concreta, del crucifigge a Djokovic bisogna fare un lungo passo indietro. Dopo il 1989, col collasso dell’Unione Sovietica, si disgrega anche quella Jugoslavia tenuta miracolosamente insieme dal Maresciallo Tito che era riuscito a far convivere comunità balcaniche che si detestano da sempre: croati, serbi, musulmani.
Nel 1992 la Croazia, dopo qualche scontro con l’esercito jugoslavo, ottiene l’indipendenza in base al sacrosanto principio della “autodeterminazione dei popoli” sancito a Helsinki nel 1975, ma anche grazie all’appoggio della Germania e del Vaticano (i croati sono cattolici, i serbi ortodossi).
La Slovenia se n’era già andata senza colpo ferire (e qui inserisco una parentesi che mi sta sentimentalmente a cuore: nel 1992 si svolgevano, in Svezia, i campionati europei di calcio e la Jugoslavia, la meravigliosa Jugoslavia degli Stojkovic dei Savicevic dei Bazarevic, dei Prosinecki vi arrivava avendo vinto tutte le gare del torneo eliminatorio tranne una pareggiata. I ragazzi erano già in Svezia, ma furono rimandati a casa. Una decisione ignominiosa. Perché è vero che a quel punto la Jugoslavia giuridicamente non esisteva più, ma quella squadra e i suoi ragazzi sì e avrebbero dovuto essere rispettati).
A quel punto i serbi di Bosnia
chiesero a loro volta l’indipendenza o l’unione alla madrepatria serba. Una Bosnia multietnica a guida musulmana si giustificava solo all’interno di una Jugoslavia a sua volta multietnica che non esisteva più. Ma quello che era stato accordato a Croazia e Slovenia non fu concesso ai serbi bosniaci. E questi scesero allora in guerra.
E poiché, a detta di coloro che si intendono di queste cose, sono, sul terreno, i migliori combattenti del mondo la stavano vincendo. Ma a favore di croati e musulmani bosniaci intervennero gli Stati Uniti e trasformarono i vincitori in vinti.
È vero che in quella guerra accaddero fatti atroci ad opera di tutte le parti combattenti, ma non è certamente un caso che davanti al Tribunale internazionale dell’Aja siano finiti solo serbi, Radovan Karadizic e Ratko Mladic (accusato, fra le altre cose, di aver assediato Sarajevo, e allora mettiamo alla gogna anche Annibale che per otto mesi assediò Sagunto, l’assedio fa parte della guerra), mentre il presidente croato Tudjman, autore della più gigantesca “pulizia etnica” dei Balcani (850.000 serbi cacciati dalle Craine in un sol giorno) è morto tranquillamente nel suo letto.
Alla guerra bosniaca fu posta fine
grazie all’accordo di Dayton al quale, sotto l’egida di Bill Clinton, partecipò anche Slobodan Milosevic il Presidente della Serbia.
Ma agli Stati Uniti non bastava. Nel frattempo era nata la questione del Kosovo. In Kosovo, che è considerato “la culla della patria serba”, gli albanesi erano diventati maggioranza e pretendevano l’indipendenza dalla Serbia. Ma una terra non è solo di chi la abita in quel momento, ma anche delle generazioni che l’hanno vissuta, lavorata e costituita in precedenza. Sarebbe come se nel nostro Piemonte gli islamici, divenuti maggioranza, pretendessero l’indipendenza dall’Italia e di costituire uno stato a sé.
Gli indipendentisti albanesi facevano largo uso del terrorismo, come sempre avviene quando dei partigiani hanno a che fare con un esercito regolare, e non saremo noi a condannarli per questo, la Serbia rispondeva con l’esercito e con alcuni reparti paramilitari come le famose “tigri di Arkan”. Era una questione interna alla Serbia che avrebbe dovuto essere decisa dal campo. Ma intervennero, al solito, gli americani che decisero che i serbi avevano torto e i kosovari albanesi ragione.
Per 72 giorni gli aerei NATO, che partivano da Aviano (perché gli italiani c’erano nella solita, vile, parte del `palo`) bombardarono una grande città europea, Belgrado, che, per farsi un’idea, è come bombardare Milano. In realtà allora la vera colpa della Serbia era quella di essere rimasta l’unico Paese paracomunista d’Europa. E mentre fino a poco tempo prima per l’intellighenzia del Vecchio Continente bastava essere filocomunisti per avere ragione, adesso bastava essere similcomunisti per avere torto.
Milosevic che pur era stato decisivo
negli accordi di Dayton fu trascinato, non si capisce per quale ragione davanti al solito Tribunale dell’Aja. Il processo cominciò con grande clamore ma poi fu silenzio perché Milosevic, avvocato, aveva buone carte per difendersi. Morirà d’infarto in prigione a 64 anni.
L’obiettivo degli americani era di creare nei Balcani una striscia di islamismo moderato (Albania più Bosnia più Kosovo) a favore di quello che era allora il loro grande alleato nella regione, la Turchia. Abbiamo visto come poi è andata a finire: la Turchia, pur restando un alleato NATO, sotto Erdogan conduce una politica profondamente antiamericana e così adesso al posto di una temuta, e quasi immaginaria, `Grande Serbia` c’è nei Balcani una concretissima `Grande Albania` dove, a due passi da noi, trova alimento l’Isis. Intanto in Kosovo si è realizzata, dopo quella di Tudjman, la più grande “pulizia etnica” dei Balcani: dei 360.000 serbi ne sono rimasti solo 60.000.
A una trasmissione di Floris – doveva essere il 2002 – presente Massimo D’Alema, che era premier all’epoca dell’aggressione alla Serbia, condannata dall’Onu, dissi: “Mi perdoni, presidente, ma la guerra alla Serbia oltre che illegittima dal punto di vista del diritto internazionale, se l’Onu conta ancora qualcosa, è stata una guerra cogliona perché ha favorito nei Balcani quell’islamismo radicale che oggi provoca le isterie “Fallaci style”. D’Alema non replicò. Ma io a Ballarò non ho più rimesso piede.