In questi giorni, dopo mesi di appelli e proteste contro il governo per la pessima gestione dell’epidemia, le tribù di indigeni dell’Amazzonia hanno ricevuto la vittoria che meritavano.
L’Ecuador in questi mesi è diventato uno dei paesi più colpiti dal Coronavirus in tutta l’America Latina. Con ben 51.643 casi confermati e 4.271 decessi, la situazione drastica ha costretto il presidente Lenìn Moreno a dichiarare lo stato di emergenza sanitaria.
Le principali cause di questi numeri sono probabilmente da individuare nell’alto livello di migrazione nel paese e gli stretti contatti con la Spagna.
L’epicentro della pandemia è la regione di Guayas, dove sono concentrati il 70% dei casi. Il sistema sanitario del paese è collassato nel giro di pochi giorni e la situazione è indicativa di come si sia sviluppata l’emergenza sanitaria: i pazienti non vengono testati per tempo, molti muoiono nei corridoi degli ospedali e altri semplicemente muoiono in casa. Le morti sono così alte che le autorità non riescono a gestirle.
La città di Guayaquil ha riportato più morti relative al Covid-19 di intere nazioni dell’America Latina e l’Ecuador è stato identificato come il peggior scenario possibile delle conseguenze di una cattiva gestione della pandemia.
In più, c’è una generale diffidenza nei confronti dell’informazione pubblica perché la popolazione percepisce una discrepanza tra i numeri ufficiali e l’esperienza quotidiana: i cittadini sono costretti ogni giorno a vedere corpi deceduti in mezzo alle strade o famiglie obbligate a tenere i corpi nelle proprie case.
Significative sono le parole di Billy Navarrete Benavides, segretario esecutivo del Comitato permanente per la difesa dei diritti umani di Guayaquil:
“Sin dall’inizio i numeri non erano affidabili, molte persone con i sintomi da Covid-19 non sono state testate e sono morte. Tutte queste persone non sono state conteggiate, quindi non è possibile nemmeno arrivare vicini a conoscere l’entità del disastro”.
Nel mezzo del dramma, l’Ecuador è incappato in una crisi, oltre che economica, anche politica: a fine marzo l’allora Ministro della sanità Catalina Andramuño ha dato le proprie dimissioni, affermando di non essere in grado di gestire una simile pandemia, considerando che il paese stesso non avesse mezzi e risorse per sostenere questa situazione.
Oltre alla preoccupante condizione delle città in Guayas però, ci sono anche altre fasce di popolazione che sono particolarmente vulnerabili all’insorgenza del virus, come le migliaia di senzatetto e i circa 350mila rifugiati venezuelani, molti dei quali vivono in condizioni precarie e spesso senza una casa.
Ma l’emergenza sanitaria minaccia soprattutto i popoli indigeni
L’Amazzonia, terra abitata da numerose tribù indigene, è forse quella più a rischio, a causa dell’alto tasso di malnutrizione e dell’accesso limitato alle strutture sanitarie. Per questo motivo all’inizio di aprile alcune organizzazioni indigene che rappresentano il popolo Waorani in Ecuador hanno proibito l’accesso ad alcune aree della giungla ai propri membri che vivono in aree urbane.
Il leader della comunità originaria dell’Amazzonia settentrionale Sekopai nei mesi scorsi aveva pregato il governo di proteggere con urgenza i nativi, dopo che erano stati registrati i primi 16 casi confermati di Covid-19, chiedendo maggiore inclusione nell’assistenza medica e la realizzazione di test rapidi per individuare i contagi.
Tra le comunità native più in pericolo vi è proprio quella dei Waorani, che conta circa 5000 persone e che rischia un vero e proprio etnocidio. Di fronte all’immobilità del governo ecuadoregno dopo un primo appello pacifico, i suoi capi hanno deciso di adire le vie legali: il 21 maggio è stata fatta causa al presidente Moreno, e al suo vice Sonnenholzner.
Una causa che hanno vinto
Il 17 giugno il giudice del tribunale di Pichincha si è infatti pronunciato a favore dei diritti dei Waorani alla salute, alla vita e all’autodeterminazione e, secondo quanto riportato dalla Ong Amazon Frontlines: “ha concesso misure cautelari parziali che impongono al governo ecuadoregno di intraprendere azioni urgenti per contenere il virus nel territorio dei Waorani”.
Ora il ministero della salute, stando alle direttive del tribunale, ha l’obbligo di effettuare test e tamponi in ben undici comunità (quelle colpite dal virus) nel territorio dei Waorani.
Le prime parole trionfanti
di Nemonte Nenquimo, uno dei maggiori capi tribù sono state molto forti:
“Abbiamo combattuto per migliaia di anni per difendere il nostro territorio e le nostre vite da molteplici minacce, come conquistatori, taglialegna e compagnie petrolifere. Ora, stiamo combattendo contro la minaccia della Covid-19 con la nostra antica saggezza, la nostra conoscenza delle piante medicinali e i nostri protocolli di salute.
Ma lo stato sta mettendo a rischio la vita dei nostri pikenani e dei nostri parenti incontattati (…) Siamo felici di aver vinto questa battaglia legale, ma c’è ancora molto da fare per proteggere la nostra gente”.