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I contributi pubblici come argine alla prostituzione intellettuale

Il candidato premier del M5s Luigi di Maio con Alessandro di Battista nella sede del comitato elettorale del M5s in una foto tratta dal profilo facebook di Di Battista.

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Il botta e risposta tra 5 stelle ed universo mediatico offre lo spunto per riflettere sulla riforma auspicata dai grillini… e sul potenziale effetto boomerang.

 

L’assoluzione di Virginia Raggi ha dato il via ad una faida dialettica che sta avendo come protagonisti il mondo del giornalismo e quello della politica. Un botta e risposta decisamente aspro e violento, costellato di reciproche accuse di prostituzione. Un confronto nel quale ognuno pare convinto di aver scoperchiato il vaso di Pandora sull’inettitudine etica della categoria altrui, anche se, in realtà, la disciplina praticata assomiglia molto più nitidamente ad una perpetua rivelazione di segreti di pulcinella.

Al netto delle scelte stilistiche soggettive (la cui responsabilità è personale e non di partito, come rimarcato dal Guardasigilli Bonafede) e dell’accezione dispregiativa di un mestiere -il più antico del mondo- che in alcune epoche e culture è stato persino considerato nobile, i rappresentanti di entrambe le fazioni dovrebbero farsi un esame di coscienza ed accettare, con totale serenità d’animo, alcuni aspetti collaterali connaturati nelle rispettive professioni. Su tutti, l’inevitabile inclinazione al compromesso ed  ai rapporti con i poteri forti.

 

L’aristocrazia in politica…

Senza stare ad utilizzare espressioni, come prostituzione intellettuale o mercimonio, che potrebbero innescare indignazioni e malumori nelle summenzionate categorie, bisogna riconoscere un’evidenza storica: da quando democrazia e libertà di stampa convivono nello stesso sistema, la politica e l’informazione hanno sempre rappresentato gli strumenti utilizzati dalle aristocrazie di ogni epoca per salvaguardarsi.

Ancora oggi, i grandi magnati dell’industria e della finanza continuano ad entrare in politica -in prima persona o tramite interposti lobbisti- al fine di influenzare dall’interno le discipline che regolano i propri settori di competenza. Molto spesso, il tutto si presenta sotto forma di istanze portate avanti da formazioni neoliberiste, le quali mirano ad ottenere una maggiore flessibilità in campo fiscale ed occupazionale, abbattendo così i costi del lavoro ed alzando consequenzialmente l’asticella degli utili di impresa.

Silvio Berlusconi, emblema del rapporto stretto -e tutt’altro che disinteressato- tra imprenditoria, media e politica

 

E nei media

Ciononostante, l’interesse verso le stanze del potere esecutivo e legislativo, non si può certo considerare predominante rispetto a quello che le èlite nutrono verso il mondo dell’informazione.  Un settore, il cui eventuale controllo offre la possibilità di ammorbidire l’opinione pubblica nei confronti del proprio operato (o di quello dei partiti più congeniali); senza dimenticare ovviamente, la possibilità di gettar discredito sulle opposizioni -politiche o sindacali che siano- o sui concorrenti del settore.

Non è certo un caso infatti, che tutti i grandi totalitarismi capaci di conquistare il potere e sovvertire sistemi precedenti, si siano affrettati a limitare il pluralismo politico e la libertà di stampa. Impedire l’accesso dell’aristocrazia nazionale a questi due mondi è servito ovviamente ad ingabbiarla, rendendola subalterna alla causa e passando così dal rischio di un’oligarchia economica ad un’oligarchia di partito.

 

Uno spunto di riflessione per i grillini

Carlo De Bendetti, simbolo dell’egemonia intellettuale all’interno dell’editoria italiana

A margine di questa panoramica, si può dunque desumere l’ineluttabilità di quanto anticipato poc’anzi, ovvero lo stretto rapporto intrattenuto dalla grande imprenditoria con la politica e con gli organi di informazione. Un rapporto inevitabile, specialmente tenendo presente la più marchiana delle ovvietà: senza ingenti conferimenti esterni, non si possono certo sostenere spese editoriali su larga scala.

Proprio quest’ultima considerazione però, dovrebbe fungere da monito per il MoVimento che ha innescato la polemica. Il fatto che molti aspiranti giornalisti debbano venire a patti con il loro editore, sacrificando la propria purezza professionale pur di trasformare l’ancestrale passione per la cronaca in un lavoro di cui vivere, suggerisce l’obbligo di un ripensamento rispetto ad una delle battaglie tanto care ai grillini: l’eliminazione dei fondi pubblici all’editoria.

 

Il rischio di un effetto boomerang

Senza un adeguato supporto dello stato, il mondo dell’informazione non potrà che subire il triste destino toccato a tutti i mercati liberi e deregolamentati; nascerà dunque un settore appannaggio esclusivo di pochi, scoraggiando i piccoli editori indipendenti (salvo rare eccezioni, le uniche fonti di controinformazione contemporanea) ad intraprendere una qualche forma di concorrenza ai grandi gruppi, già oggi molto difficile.

Con uno stop ai contributi tout court la riforma sortirebbe l’effetto contrario a quello auspicato, creando un’egemonia mediatica ancora più solida. Ci priverebbe, in buona sostanza, dell’attuale sparuta resistenza e favorirebbe la proliferazione di molte più “puttane”.

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Di Filippo Klement

Classe 1990, ha studiato giurisprudenza, a latere un vasto interesse per la storia contemporanea e la politica.

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