In quella che era una delle ultime finali per accedere in Europa dalla porta di servizio, Verona e Lazio alla fine partoriscono un pareggio fatto di tanti goal conditi da altrettanti errori marchiani in difesa. Un risultato che, salvo clamorose sorprese finali, relegherà le due squadre nel limbo della serie A: quello dei senza infamia e senza lode. In uno stadio Olimpico ridotto in stato di semi abbandono come lo era il Campo Vaccino a cavallo dei secoli bui, l’incontro si è dipanato tra due squadre condannate ad un unico risultato utile. Sarebbe quasi superfluo dire che, nel caso della Lazio, figlia di tanti e tali scempi di mercato, quel risultato è perennemente sospeso tra l’impossibile e il miracoloso. Lì davanti, per fare male ci si deve affidare ad un ragazzino che, se pur bravo, fino all’anno scorso militava nel campionato Primavera, e ad un falso…giovine di belle speranze, vedi Mauri redivivo. Dietro stiamo ancora peggio, con uomini sempre più usurati o sempre meno all’altezza di una serie A.
Una simpatica banda del buco…in difesa, che più che giocare a calcio avrebbero potuto con ugual dignità passeggiare come turisti inglesi di mezza età dalle parti proprio della spianata dei Fori. E meno male che i condottieri biancocelesti non hanno avuto l’ardire di schierare pure il buon Vinicius, un altro “mega acquisto” del mercato “trionfale” di luglio perché a quest’ora chissà dove saremmo andati…forse infilati nella male bolge di chi non ha più speranze.
Sta di fatto che per ben tre volte la banda di Reja è passata dall’altare alla polvere così come era successo con lapalissiana puntualità con i soldati di Ventura, con goal frutto di sangue, lacrime e sudore, disfatti in un istante da una fragile linea composta di immobili e vetusti corazzieri. Perché passi il primo pareggio, frutto di un mancato marcamento di Biava su Marquinho, ma il secondo pareggio consecutivo nel giro di una manciata di minuti, con I…turbo che si è bevuto in un secondo gli arrancanti e spaesati difensori laziali, vedi Konkò, mette in evidenza la pochezza di gambe, velocità e concentrazione degli alabardieri da parata della Lazio.
E poi, va detto, la squadra di Lotito avrebbe potuto pure subire già il vantaggio iniziale ad opera di Toni grazie ad uno scontro da oggi le comiche tra Biava e Biglia, se il gigante, in questo caso molto buono, non avesse graziato la porta sotto la nord. Come dicevamo a nulla sono valse le prodezze prima di Keità, un’ancor timida voce che predica nel gran diserto, e di Lulic, sempre su imbeccata del primo, perché a pochi minuti dal termine la Lazio si è ritrovata addirittura sul 2-3. Uno svantaggio figlio di una dormita generale della linea difensiva laziale simile, nell’occasione, alla grande Linea Maginot dei francesi nell’ultimo conflitto mondiale, una linea imponente ma tanto statica da essere raggirata dalle Panzer Divisionen tedesche in modo quasi irridente.
A togliere le poche e residue castagne dal fuoco ai laziali ci ha pensato Mauri su rigore concesso un po’ bonariamente dall’arbitro nell’ultimo minuto, un rigore pure sbagliato che è stato deviato in rete dallo stesso capitano su respinta del portiere avversario. Ora, per alimentare le speranze delle due compagini, non resta altro che qualche cero acceso ai santi di turno e una serie miracolosa di coincidenze che francamente facciamo fatica ad immaginare. Brutto dopo partita tra Reja e Mandorlini che sono sembrati due pugili che si minacciano prima del match: la delusione e l’adrenalina in corpo in questi casi possono giocare brutti scherzi.
Sul fronte invece della festa scudetto, in un clima da scampagnata, sereno e rilassato, la Juve ha semplicemente mostrato in passerella i suoi gioielli davanti al solito gremito Juventus Stadium con un’Atalanta che, per la verità, ha provato a resistere con quello che ancora ha in corpo, ma che alla fine ha dovuto sottostare alla solita legge casalinga dello stadio “stregato”. Il goal juventino questa volta è arrivato da chi…per lungo silenzio parea fioco…ovvero dal signor Padoin, riserva delle riserve in una squadra che in tale superba stagione non ha buttato via niente. Un goal metafora che significa semplicemente che l’ennesimo scudetto è di tutti, dalla fonte di luce della squadra, vedi Pirlo, giù giù fino appunto all’ultimo gladiatore, vedi Padoin. Un trionfo che mette bene in evidenza anche i paradossi di un campionato a venti squadre forse troppo lungo ma soprattutto troppo pieno, dove la differenza tra la prima e le ultime è veramente abissale, forse troppa.