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Self-publishing: lo squallido volto del capitalismo?

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A più riprese sulle pagine de L’Elzeviro abbiamo tratto dell’autopubblicazione, o self-publishing. Leggendo l’ultimo numero de Il Covile, ci si accorge di quanto le posizioni espresse nei nostri vari interventi coincidano con quelle dell’altra rivista.

Il netto vantaggio che l’autopubblicazione può offrire è senza dubbio il “controllo creativo” dell’autore su ogni fase che va dall’upload del testo sul sito scelto per il self-publishing, fino all’arrivo a casa del libro stampato. Tutto: editing, formato, copertina, stile della copertina, prezzo è gestito dall’utente.

Il Covile elogiava questo “controllo creativo”, ma si rimane stupiti constatando l’assenza del passaggio logico successivo: il rischio di congestione di un mercato libero da controllo critico di esperti del settore. Certo, questo può provenire e proviene sezna dubbio dai lettori. Ma un conto è orientarsi in un catalogo di 500 ebook, un conto di 3000.

Il pomo della discordia dell’autopubblicazione può diventare proprio la sua libertà? Libertà creativa, da un lato, ma libertà di pubblicare tutto ciò che si vuole dall’altro, con o senza prezzo.

Fino a che punto questo è un vantaggio? La casa editrice aveva la funzione di scremare i manoscritti scegliendo il meglio, avvalendosi di personaggi come Cesare Pavese per l’Einaudi o Fernanda Pivano per Mondadori. Tutto questo salta nel self-publishing, facendo critico il pubblico.

Si potrà gioire di questa democraticizzazione del mercato dell’editoria, ma il proverbiale rovescio della medaglia è la possibile interpretazione simbolica di questo pubblico-critico. Il self-publishing sembra basarsi sulla mano invisibile di Adam Smith: il pubblico sceglierà i propri futuri best-sellers. Ma in questo modo non rischia di venire premiato il libro più commerciale (nell’accezione più negativa del termine), anziché quello più valido dal punto di vista artistico?

Allora il self-publishing (con cui comunque non guadagna solo l’autore ma anche il sito stesso) non potrebbe venir interpretato come il simbolo di un processo capitalistico volto a elargire democrazia non fine a stessa, ma a fine di lucro? Il tutto infischiandosene delle conseguenze a breve e a lungo termine? Infischiandosene, in nome della «megera guercia del dollaro», come avrebbe detto Allen Gingsberg, della conseguente congestione e svalutazione del libro, non solo come prodotto, ma come facente Cultura?

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Di Redazione Elzeviro.eu

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