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La morte di Noa: una bufala lessicale, ma non certo sostanziale

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I principali portali vicini agli ambienti del progressismo radicale si sono affrettati a denunciare la fake news riguardante l’eutanasia della giovane olandese. Una crociata esclusivamente semantica, che non cambia il ritratto del paradossale welfare moderno.

Nella settimana che sembrava destinata a dover subire inerme il duopolio rappresentato dalle polemiche sulla “letterina da Bruxelles” e sui MiniBot, purtroppo, si è inaspettatamente inserito uno spiacevole dibattito di contorno. Spiacevole tanto per i contenuti e l’epilogo della vicenda umana, quanto per le strumentalizzazioni che ne sono scaturite.

Il risultato prodotto, è stato una riapertura improvvisa dell’annoso dibattito che gravita attorno alle questioni inerenti al campo della bioetica: dall’eutanasia, al suicidio assistito, passando per il più generico dilemma sul ruolo che le istituzioni devono recitare di fronte a situazione estreme. Lo Stato illuminato è quello che tutela la vita, oppure quello che concede una insindacabile libertà di autodeterminazione?

Il caso di Noa Pothoven

La storia ormai, è conosciuta da tutti. Noa Pothoven, una ragazza olandese vittima da tempo di depressione, anoressia e stress post traumatico a causa dei ripetuti abusi sessuali subiti in giovanissima età, ha deciso di farla finita.  A 17 anni. Dopo alcuni tentativi di suicidio e dopo alcuni infruttuosi percorsi riabilitativi, non ha più retto il peso di una inconcludente ricerca di normalità, abbandonandosi ad un digiuno senza fine, che ne ha causato la morte.

Una notizia che è stata riportata in maniera certamente un po’ frettolosa e – come spesso capita in questi casi – anche con una terminologia tecnicamente inappropriata. Tutti i principali media italiani ed internazionali infatti, hanno immediatamente battuto titoli ed articoli che narravano di un caso di eutanasia vera e propria (legale nei Paesi Bassi, al pari del suicidio assistito), alludendo dunque ad un presunto coinvolgimento del servizio sanitario statale. Una versione che è stata sconfessata con il passare delle ore, lasciando spazio alla dinamica autentica: una morte sopraggiunta in casa, sotto il controllo vigile di alcuni operatori.

La caccia alla bufala

Un altro scatto della diciassettenne Noa Pothoven

Spostando il fulcro dell’attenzione squisitamente sui piani del commento e della propaganda però, l’aspetto bizzarro è stato senza dubbio un altro. Tutti i portali vicini all’ambiente del progressismo radicale, dopo aver apostrofato per anni come disinformatore o avvelenatore di pozzi chiunque osasse mettere in discussione la narrazione degli organi mainstream, si sono lanciati in una prontissima azione di debunking per smascherare la “bufala di regime”.

Un’attività certamente nobile se rapportata al dovere morale di render nota la narrazione più genuina possibile, ma che a conti fatti, dimostra il carattere meramente pretestuoso di questa compulsiva ricerca della verità. Già, perché sebbene di eutanasia legale non si possa parlare, ciò che è emerso è che la fake news riguarda solo l’aspetto della terminologia giuridica, non certo quello sostanziale.

Pochi cambiamenti sostanziali

Il ritratto dello stato olandese che esce da tutta questa drammatica vicenda di cronaca, non è certo quella di uno stato innocente o privo di complicità; e sostenere il contrario, significa ridurre il tutto ad una crociata ultraliberale improntata su un cavillo semantico. Ha davvero senso una logorante opera di fact checking scolastico – alla David Puente – se poi si finisce per nascondere l’evidenza dietro ad un filo d’erba lessicale?

Prendendo spunto anche da quanto riportato dalle zelanti penne dei suddetti organi infatti, la conclusione è che la povera Noa sia stata accompagnata nel suo percorso verso la morte da un’equipe di medici. Dunque, ciò che ci si deve chiedere ai fini di un dibattito costruttivo è: davvero cambia qualcosa se uno stato nega l’autorizzazione per l’eutanasia legale, ma poco dopo consente ad operatori di una clinica privata di seguire un’adolescente depressa nel suicidio? La privatizzazione rende forse il gesto più nobile? Ed infine, è da guardare come modello uno stato che costringe a liste di attesa di un anno e mezzo ai fini dell’accesso a cliniche psichiatriche infantili (esperienza personale raccontata dai genitori di Noa), per poi legalizzare l’eutanasia legale fin dai 12 anni (dodici!) anche per i disturbi mentali?

Il ritratto dello stato sociale moderno

Il radicale Marco Cappato. Uno dei principali sponsor dell’eutanasia in Italia.

Lascia abbastanza perplessi il fatto che l’epicentro del dibattito sia stato rappresentato esclusivamente da una gazzarra terminologica; il proverbiale dito che distrae gli stolti dalla luna, la quale in questo caso illuminerebbe i paradossi dello stato sociale moderno. Un welfare in cui emerge chiara la truffa di quel progresso che spaccia la sacrificabilità di soggetti parassitari ed improduttivi, per conquista nel campo dei diritti civili.

Concentrarsi esclusivamente sulla differenza tra eutanasia e non, è uno stratagemma subdolo di quei progressisti che, ancora una volta, si confermano i cugini tonti e funzionali dei liberisti in campo economico. La vicenda umana di Noa suscita senz’altro sgomento, ma ciò che rimane ancora più indelebile è che l’intero apparato statale non sia stato in grado di reinserire nei meccanismi sociali una ragazzina depressa, accettandone passivamente la morte: assecondando quella che è la banalizzazione del tema figlia dei nostri tempi. Un modello da guardare con categorico rifiuto e non certo con ammirazione. Eutanasia legale, oppure no.

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Di Filippo Klement

Classe 1990, ha studiato giurisprudenza, a latere un vasto interesse per la storia contemporanea e la politica.

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