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Il New York Times stringe la mano all’Isis

FILE - This undated file image posted on a militant website on Tuesday, Jan. 14, 2014 shows fighters from the al-Qaida linked Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL) marching in Raqqa, Syria. Once a vibrant, mixed city considered a bastion of support for President Bashar Assad, the eastern city of Raqqa is now a shell of its former life, transformed by al-Qaida militants into the nucleus of the terror group's version of an Islamic caliphate they hope one day to establish in Syria and Iraq. In rare interviews with The Associated Press, residents and activists in Raqqa describe a city where fear prevails, music has been banned, Christians have to pay religious tax in return for protection and face-veiled women and pistol-wielding men in jihadi uniforms patrol the streets. (AP Photo/militant website, File)

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Il New York Times leva la maschera e ci racconta come l’Isis possa essere una risorsa per gli Stati Uniti e i suoi alleati. Niente complotto, niente fake news, Mark Zuckerberg e la sua psicopolizia possono stare tranquilli. Siamo sulle pagine di uno dei quotidiano più autorevoli e letti al mondo. Il New York Times. Giornale della upper class finanziaria newyorkese, ma più in generale del mondo. Quella nuova casta sociale apolide, che mangia indici di borsa a colazione pranzo e cena.

Un articolo inquietante

Bene su queste pagine in data 12 aprile 2017 è comparso un articolo scioccante. “Why Is Trump Fighting ISIS in Syria?” (“Perché Trump sta combattendo l’Isi in Siria”), questo il titolo del pezzo a firma di Thomas Friedman. Il redattore, che parla ovviamente nell’interesse del suo giornale e del suo bacino di lettori, si chiede: “È davvero nei nostri interessi concentrarsi solamente nella sconfitta dell’Isis proprio ora?”. Friedman si lancia dunque in un’analisi spiccia della natura di Daesh. Secondo il redattore lo Stato Islamico avrebbe lanciato due sfide al mondo. Una virtuale, che corre nell’universo del web e punta al reclutamento di forze fresche in tutto il mondo. Un’altra reale e territoriale. Quella situata tra l’Iraq e la Siria. Friedman sostiene che gli Stati Uniti debbano concentrarsi sulla prima minaccia, mentre la seconda può essere “per ora” lasciata da parte.

L’Isis serve agli Stati Uniti

Perché?  Semplice. “Così l’Isis può diventare problema esclusivo di Iran, Russia, Hezbollah e Assad”, “se sconfiggiamo l’Isis in Siria ora, potremmo solo ridurre la pressione su Assad, Iran, Russia ed Hezbollah, rendendoli così in grado di utilizzare tutte le loro risorse per sconfiggere gli ultimi ribelli moderati di Idlib”. Una frase che riassume alla perfezione la dottrina di politica estera utilizzata dagli Stati Uniti già sotto l’amministrazione Obama.

La guerra contro l’Isis non è priorità per Washington e probabilmente non lo è mai stata. Lo ha scritto il New York Times, uno dei giornali più autorevoli al mondo. Lo ha dimostrato il Presidente Usa stesso, scegliendo di attaccare la base siriana. Mentre in Europa, dalla Francia, alla Germania fino alla Svezia, i civili cittadini subiscono gli attentanti rivendicati puntualmente dallo Stato Islamico, il nostro “faro della democrazia”, Washington, scrive senza vergogna che l’Isis non è un problema.

Cosa ci facciamo dunque noi europei ancora alleati di questa gentaglia? Come possiamo ancora essere membri di un’organizzazione quale la NATO, i cui obiettivi sono in piena linea con gli Stati Uniti. E quindi anche la NATO non ha interesse nel combattere Daesh. Anche per la NATO i nemici veri sono Russia, Hezbollah, Assad e Iran. Quattro attori che mai hanno minacciato l’Europa e i suoi cittadini.

Fuori dalla NATO, via da quest’alleanza insensata con Washington il prima possibile. L’unica soluzione per salvare i nostri cittadini da altri attentati.

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Di Gabriele Tebaldi

Classe 1990, giornalista pubblicista, collabora con Elzeviro dal 2011, quando la testata ha preso la conformazione attuale. Laurea e master in ambito di scienze politiche e internazionali. Ha vissuto in Palestina, Costa d'Avorio, Tanzania e Tunisia.

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