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John Pilger alla difesa di Assange: “Siamo in pericolo”

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Il 2 settembre 2019, di fronte al Ministero degli Interni britannico, il pluripremiato giornalista (e regista) australiano John Pilger ha lanciato un potente ed iconico messaggio a difesa di Julian Assange, riferendo le esatte parole che il fondatore di Wikileaks aveva avuto modo di comunicargli:

 

«La questione non riguarda soltanto me, ma è molto più estesa: riguarda tutti noi, tutti i giornalisti e gli editori che fanno il loro mestiere e che sono in pericolo» [traduzioni, questa e le prossime, a cura dell’autore, N.d.R.].

All’inizio del mese si è tenuta una manifestazione, molto partecipata e vissuta, a Londra, nella quale diverse personalità illustri hanno testimoniato a favore della liberazione di Julian Assange, reo semplicemente di aver fatto il suo lavoro, scoperchiando delle verità scottanti e molto difficili da raccontare. Fra questi illustri, si possono menzionare: Chris Williamson, membro del Parlamento britannico; Roger Waters, leggendario bassista dei Pink Floyd; Kristinn Hrafnsson, giornalista e caporedattore di Wikileaks; infine, lo stesso John Pilger.

Quest’ultimo, senza ombra di dubbio ha rappresentato la figura più iconica sul palco, perché esercitante la stessa professione del suo connazionale (prelevato dall’ambasciata ecuadoregna ad aprile ed imprigionato nella capitale, con una possibile estradizione negli Stati Uniti a carico) e perché strenuo difensore della sua causa di libertà.

Lo stesso Pilger aveva già denunciato

in più occasioni, il trattamento del tutto illegittimo e violento da parte delle autorità britanniche su Assange, ed ha avuto modo di ribadirlo in una sua intervista, nei pressi del palco della manifestazione, a The Gray Zone:

«Ho visto [Assange] di recente e non sta affatto bene. Ha perso molto peso. Ma ha una resilienza davvero straordinaria. E mantiene persino un qual certo senso dell’umorismo, una cosa che trovo abbastanza notevole. Ma non ci sono dubbi sui mesi di isolamento, sui mesi del continuo senso di persecuzione: il relatore delle Nazioni Unite sulla tortura, Nils Melzer, lo ha evidenziato molto bene quando ha detto che Julian è vittima del mobbing. È un particolare tipo di vittimizzazione. E gli effetti psicologici di ciò sono molto, molto dannosi. Quindi, quando mi chiedi: “Che cosa vorrei?”, [io ti rispondo] “Voglio farlo uscire di lì“. Questo non è un posto per gli esseri umani, è come un magazzino. È una gabbia. E lui è un uomo innocente. Dovrebbe essere fuori di lì».

Del resto, sul suo sito personale aveva già provveduto, due soli giorni dopo l’arresto di Assange l’11 aprile di quest’anno, ad avvertire il suo pubblico dei pericoli che un simile atto avrebbe implicato: l’emblema icastico e caustico della lotta in atto tra potere e diritto, tra indecenza e coraggio, tra forza e legge, dove le prime stanno surclassando le seconde, attraverso atti come l’arresto di un uomo protetto dal diritto internazionale e tradito da chi lo stava proteggendo, con la collusione delle autorità di un Paese un tempo portatore autentico del mito «dell’equità e della giustizia».

Assange, infatti

è secondo Pilger un portatore straordinario e grandioso di verità, libertà e democrazia, il cui operato è stato criminalizzato da niente di meno che criminali impuniti. Nondimeno, egli ha avuto il coraggio di denunciare, attraverso l’immenso lavoro di Wikileaks – sfruttato indebitamente da altri, come il Guardian, il Der Spiegel, il Washington Post e così via -, con documenti ufficiali tutte le nefandezze delle èlite politiche americane e britanniche (e non solo): dalla brutalità delle guerre neo-coloniali (economiche) degli USA, al finanziamento del jihadismo in Medioriente da parte dei Clinton, e così via.

«Il vero giornalismo è il nemico di queste disgrazie», ha proseguito Pilger nella sua invettiva, calibrata ma estremamente fendente e ficcante: un’invettiva che è al contempo una speranza che tale atto non rappresenti l’epitaffio al diritto di mettere in discussione, conoscere, dubitare e sfidare il potere, onde evitare la “vuota sottomissione” del pubblico (parole di Leni Riefensthal).

«Una decina di anni fa, il ministero della Difesa a Londra ha prodotto un documento segreto che descriveva le tre “principali minacce” all’ordine pubblico: i terroristi, le spie russe ed i giornalisti investigativi. Questi ultimi venivano considerati come la minaccia più grave».

Il giornalista John Pilger

Il trattamento inglese riservato al giornalista australiano non è affatto incidentale.

Tutti questi concetti sono stati ribaditi da Pilger proprio sul palco di Londra, il 2 settembre, con voce franca e decisa, ripreso da Ruptly (di Russia Today): Julian Assange merita il titolo di eroe contemporaneo, senza dubbio alcuno. Il comportamento britannico è «un disonore, una profanazione del reale significato di “diritti umani”», più precisamente (e crudelmente) «il modo in cui le dittature trattano un prigioniero politico». Oggi, in quella prigione di Belmarsh i cui muri sottolineano la bellezza dell’erba sotto i piedi, sarcasticamente deridendo un uomo chiuso in una cella minuscola, insignificante ed isolata da tutto il resto. Ivi compreso il calore umano della voce di amici e parenti.

La basica libertà di parlare e di ascoltare, con questi tradimento ed incarcerazione, è seriamente messa in dubbio, compromessa, attaccata, mentre si cerca di turlupinare i cittadini a riguardo: l’avvertimento del Potere, con la P maiuscola, è stato lanciato.

Pilger ha ribadito una verità concreta

ed essenziale nei tempi moderni: il giornalismo d’inchiesta non è un crimine, non ancora almeno, e non dovrebbe mai esserlo o diventarlo. Specialmente se capace di scoperchiare le nefandezze di quei governi che agiscono nell’ombra per minare le solidità economiche, politiche e militari di altri popoli, nascondendo però ai loro rispettivi cittadini (e democratici elettori) di star compiendo quelle stesse empie scelleratezze in loro nome. L’arresto e la persecuzione di Assange sono, lapalissianamente, «una vergogna», «un oltraggio»: e coloro che stanno compiendo tutto ciò, o ne sono conniventi, lo sanno alla perfezione.

Roger Waters

A seguito del brillante intervento di Pilger, l’icona rock Roger Waters – un profondo critico della politica estera statunitense: inusuale, per un membro del grande showbiz mondiale, però non appartenere a questo Circolo Pickwick autoreferenziale – ha cantato, in onore di Assange, un successo mondiale ed eterno dei Pink Floyd, “Wish You Were Here“. Il cui messaggio potente, simbolico, squarcia il velo di Maya dell’indifferenza, e risuona nelle menti delle persone, giungendo finanche alle sbarre della cella del giornalista australiano.

Il mondo libero, quindi, sta continuando a schierarsi compattamente con il fondatore di Wikileaks. E le parole di Pilger, monumentali e granitiche, si stagliano proprio in questo orizzonte:

«Ciò che sta accadendo a Julian Assange ed a Chelsea Manning ha lo scopo di intimidirci, e di spaventarci, sino a condurci al silenzio. E nel momento in cui noi taceremo, sarà finita. Difendendo Julian Assange, noi difendiamo i nostri più sacri diritti. Alziamo la voce adesso, oppure ci sveglieremo una mattina nel silenzio di un nuovo genere di tirannia. La scelta è nostra».

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Di Lorenzo Franzoni

Nato nel 1994 a Castiglione delle Stiviere, mantovano di origine e trentino di adozione, si è laureato dapprima in Filosofia e poi in Scienze Storiche all'Università degli Studi di Trento. Nella sua tesi ha trattato dei rapporti italo-libici e delle azioni internazionali di Gheddafi durante il primo decennio al potere del Rais di Sirte, visti e narrati dai quotidiani italiani. La passione per il giornalismo si è fortificata in questo contesto: ha un'inclinazione per le tematiche di politica interna ed estera, per le questioni culturali in generale e per la macroeconomia. Oltre che con Elzeviro.eu, collabora con il progetto editoriale Oltre la Linea dal 2018 e con InsideOver - progetto de il Giornale - dal 2019.

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