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La transizione ecologica: ennesima genuflessione alla corte tedesca

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E’ ora di fare chiarezza una volta per tutte: al di là della retorica green dalla quale siamo costantemente ammorbati, la transizione ecologica non è altro che un escamotage per riconvertire i più obsoleti impianti tedeschi.

di Antonio Di Siena

La tanto reclamizzata svolta green finanziata dall’UE altro non è che un gigantesco piano di riconversione degli impianti tedeschi. Come potete facilmente notare dalla mappa, infatti, delle prime dieci centrali a carbone più inquinanti d’Europa, sette sono in Germania. Un terzo del totale. E l’Italia? Poco o nulla. Nel piano infatti figurano soltanto le centrali di Civitavecchia (13esimo posto) e Brindisi (26esimo).

Il programma, quindi, e al netto del teatrino fra governo Merkel e corte costituzionale di Karlsruhe, è di importanza vitale per l’economia tedesca che, fra l’altro, è in procinto di chiudere anche sette centrali nucleari entro il 2022.

L’obiettivo è consentire alla Germania di vincere la sfida tutta occidentale della green economy, arrivando alla conversione industriale del nuovo millennio prima degli avversari americani. Per aumentare ulteriormente la loro (e soltanto la loro) competitività.

E non potrebbe essere diversamente. Altrimenti non si spiega il perché gran parte di tutta questa montagna di miliardi (ad oggi ancora assolutamente virtuali) venga destinata alla transizione ecologica e non, ad esempio, alla sanità. Nonostante la pandemia abbia ampiamente dimostrato quali dovrebbero essere le nostre priorità.

Certo, a Berlino avrebbero tranquillamente potuto fare tutto da soli senza bisogno del recovery. Ma così facendo rischiavano di rompere per sempre il giocattolino che gli ha consentito di ritornare allo status di super potenza economica.

In pratica, quindi, l’Italia e gli altri paesi del Sud in cambio di un pezzo di pane duro si stanno indebitando con Bruxelles esclusivamente per sostenere l’economia tedesca. E allora uno, giustamente, potrebbe domandarsi il perché tutto questo stia avvenendo. Che cosa ci guadagniamo noi? La risposta è semplicissima. Niente. Almeno come Paese.

Ma ne guadagnano le nostre classi dirigenti. Sicuramente il piddì che, legando ulteriormente il destino d’Italia alle sorti europee grazie a prestiti a lungo termine con fortissime condizionalità, resta nelle stanze del potere ancora per un po’ in virtù del suo incrollabile europeismo. Vera garanzia al mantenimento del progetto imperialista tedesco.

E ne guadagna certamente anche la Lega che, con le briciole riservate alle aziende del Nord pienamente inserite nella catena produttiva “made in germany”, accontenta il pezzo più consistente del suo elettorato. Chi ci perde, invece, è l’Italia. E anche parecchio.

Il nostro Paese, infatti, anziché indebitarsi in BTP – fra l’altro con somme subito disponibili e nettamente superiori a quelle del recovery – ha scelto di dipendere ancora di più dal destino della Germania. Rinunciando a finanziare la sua ricostruzione industriale, le scuole, l’università, la ricerca, gli ospedali, e quindi l’intero sistema produttivo e sanitario.

Questo significa soltanto una cosa. La Repubblica italiana un tempo quarta potenza industriale semplicemente non esiste più. È diventata un pezzo da museo. Insieme alla sua Costituzione, economicamente e socialmente avanzatissima, tradita, vilipesa e ormai estinta per manifesta incompatibilità coi Trattati dell’Unione.

Siamo definitivamente una colonia tedesca. Uno Stato fantoccio governato da un manipolo di collaborazionisti. Se ne prenda atto e si scelga da che parte stare. Una volta per tutte. Perché un tradimento di simili proporzioni non si può nascondere per sempre. E soprattutto lasciare che resti impunito
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