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CAPITOLO I (Seconda Parte) – Pompeo Magno, ovvero l’uomo che credeva di assomigliare ad Alessandro Magno

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di Roberto Crudelini

Pompeo, tanto per capire la sua personalità, aveva da sempre cercato di identificarsi, quasi con morbosa determinazione, cpon la figura a lui cara di Alessandro Magno. Lo sviluppo delle sue innegabili capacità militari, la sua rapidissima carriera, la realizzazione di un grande credito personale in campo internazionale, la cusa quasi maniacale della sua persona, fin la pettinatura, erano semplici mezzi per arrivare un giorno a dire: “Ecco ora posso anche io farmi chiamare “Magno”. Questo dovette essere lo scopo di tutta la sua vita: si considerava bello, forte e bravo e tutto il mondo avrebbe dovuto un bel giorno riconoscere questa per lui insindacabile verità. Purtroppo per lui, da lì a poco, Roma avrebbe visto l?avvento di un altro ancora più bravo e bello di lui che non si sarebbe paragonato al grande macedone ma ne avrebbe preso addirittura il posto diventando a sua volta il punto di riferimento delle generazioni future: stiamo parlando di Caio Giulio Cesare.
Comunque mentre il nostro Pompeo era impegnato nelle ultime fasi della guerra ispanica, in Italia scoppiò un?altra rivolta di schiavi, ancora più temibile di quelle avvenute in Sicilia tempo addietro, un evento che all?inizio venne colpevolmente sottovalutato, ma che poi dovette richiedere a Roma tutto il suo impegno per venirne a capo.
Tutto iniziò nella scuola di gladiatori di Capua, uno dei centri di addestramento più rinomati per questo genere di intrattenimento. Sappiamo che i gladiatori molto spesso erano schiavi che, dotati di particolari doti fisiche e militari, venivano assoldati, ma sarebbe meglio dire comprati, dai cosiddetti lanisti, appaltatori dei combattimenti, che mettevano a disposizione degli spettacoli pubblici i propri combattenti appositamente addestrati in questa sorta di caserme-scuole. Per la verità c?erano anche gladiatori liberi che, avendo deciso di cambiare vita, si vendevano spontaneamente firmando così un contratto di prestazioni, ovviamente a proprio rischio e pericolo.
La vita dei gladiatori, se paragonata a quella degli schiavi che lavoravano nei campi e di quelli che erano utilizzati nelle miniere, era di gran lunga invidiabile. Le giornate passavano tra un addestramento e l?altro, potevano fare il bagno, i pasti erano ottimi e abbondanti, come pure le donnine che ogni tanto venivano introdotte nelle loro celle. Insomma qualcuno si chiederà dove era l?inghippo, l?inganno. Semplice, per tutto questo c?era un prezzo che prima o poi quasi tutti pagavano: la vita. Solo i più forti potevano sperare di resistere più a lungo, forse addirittura per anni, anche perché non tutti i combattimenti finivano inevitabilmente con la morte di uno dei due contendenti. Si poteva sperare di terminare la propria esibizione con qualche ferita ma pur sempre vivi. Molto dipendeva dall?umore del pubblico: se questo era bendisposto allora finiva tutto a tarallucci e vino, ma se quel giorno alla gente pigliava?storto, lo sconfitto perché magari aveva combattuto male o semplicemente perché antipatico, era spacciato. Bastava un pollice versoo le grida della gente contro di lui per obbligare il vincitore, magari suo compagno di camera, a finirlo a fil di spada. Se questo si rifiutava sarebbe andato incontro allo stesso destino. Insomma una vita dura che alla fine non pagava e portava quasi sempre ad un drammatico epilogo: non era prevista se non per pochi fortunati, di solito i beniamini del pubblico, l?eventualità di un?onorata pensione. Dal mondo delle arene si usciva quasi sempre in?posizione orizzontale.
Comunque tornando alla nostra Capua, un bel giorno, nell?anno 72 a.C, alcuni di questi gladiatori, al comando di un trace, un certo Spartaco, riuscirono a vincere la resistenza delle guardie e ad evadere dal loro carcere. Un episodio questo che probabilmente non sarebbe stato neanche menzionato nelle cronache dell?epoca: una settantina di schiavi avrebbero al massimo fatto qualche scorreria nella zona, vivacchiando in questo modo per qualche mese, tra un furto di polli e l?altro fino a quando un paio di manipoli di legionari non li avesse scovati ed uccisi. I settanta gladiatori però, dopo essersi rifugiati alle falde del Vesuvio, nel giro di qualche settimana diventarono alcune centinaia. Molti pastori della zona, nullatenenti e disperati, arrivarono presto ad ingrossare le loro fila. Dopo qualche mese, grazie anche all?arrivo di Galli, Italici e addirittura Germani, evidentemente profughi dalla terre del nord Europa, Spartaco si ritrovò a comandare la bellezza di settantamila uomini, tutti bene armati, addestrati e “incarogniti” al punto giusto.
Roma, sottovalutando come abbiamo detto prima il fenomeno in questione, si limitò a mandare con colpevole ritardo contro i ribelli qualche limitato distaccamento di truppe. Nessuno aveva però fatto i conti con la disperazione di quei fuggiaschi nella cui mente era ben chiara una tremenda alternativa: o vincere o finire crocifissi ai lati di qualche strada consolare. Spartaco, uomo di intelletto e di coraggio indubbiamente superiori alla media, riuscì sempre a rintuzzare gli attacchi, grazie anche, bisogna dirlo, alle capacità dei suoi, abituati forse più degli stessi legionari romani a combattere per salvarsi la vita, compresa la turba dei fuoriusciti che si era aggiunta alla combriccola dei nostri eroi.
L?ex gladiatore trace per la verità un piano ce l?aveva: era sua intenzione raggiungere al più presto le Alpi e da lì tentare la traversata per andare in Gallia e poi forse in Spagna per rifarsi una vita e ritrovare quella libertà che Roma gli aveva negato. Purtroppo però, dopo essersi portati verso la pianura padana ed aver sconfitto presso Modena un esercito consolare, Spartaco, probabilmente costretto dai suoi, dovette ordinare la marcia indietro. Le idee non erano proprio chiare nel campo degli insorti e alla fine, dopo innumerevoli discussioni e contrasti, si votò per andare verso la Calabria. Che cosa sarebbero andati a farci da quelle parti non lo sappiamo e forse non lo sapevano neanche loro.
Nel frattempo a Roma il comando delle operazioni era stato affidato ad un certo Crasso, un magnate senza scrupoli che al tempo delle purghe sillane si era arricchito appropriandosi del patrimonio di molti proscritti. Questo Paperon de Paperoni ante litteram, con un poderoso esercito, riuscì ad intercettare gli insorti in Lucania. Se le forze in campo si equivalevano per numero e per valore individuale, non altrettanto non altrettanto si poteva dire per armamenti ed esperienza tattico militare. Gli uomini di Spartaco, fino a quel momento abilissimi nelle azioni di guerriglia e nell?affrontare al massimo un paio di legioni alla volta, si trovarono a mal partito contro la formidabile armata che questa volta Roma gli aveva mandato contro.
A nulla valse il disperato eroismo e il coraggio di quei disperati, alla fine Crasso poté allineare lungo la via Appia una fila ininterrotta di croci sulle quali morirono appesi seimila superstiti di Spartaco. Di quest?ultimo non si seppe più nulla, il suo cadavere non venne mai identificato tra le decine di migliaia di caduti: probabilmente se fu fortunato, morì combattendo sul campo di battaglia.
In tutta questa faccenda Pompeo dimostrò di possedere una fortuna sfacciata: mentre scendeva con le sue truppe lungo la penisola, intercettò un piccolo gruppo di gladiatori sbandati che, fuggiti dalle grinfie di Crasso, cercavano disperatamente di guadagnare il nord dell?Italia. La battaglia, poco più di una scaramuccia, finì incredibilmente per avere un?eco enorme sull?opinione pubblica di Roma tanto che alla fine fu Pompeo e non Crasso ad essere acclamato salvatore della Patria e a ricevere il trionfo, quasi fosse stato un console. Crasso, che aveva fatto il lavoro sporco, nell?occasione dovette accontentarsi di una semplice ovazione, evidentemente sul giudizio doveva aver influito e parecchio il trionfo di Pompeo in Spagna. Non va dimenticato inoltre che Spartaco ed il suo esercito erano considerati poco più che una banda di ribelli, la vittoria contro di loro non equivaleva a quella conseguita contro un esercito regolare.
Quando si dissiparono i fumi della sbornia generale che si impadronì di Roma all?indomani del doppio trionfo contro Spartaco e Sertorio, fu chiara a tutti la delicatezza della nuova situazione politica venutasi a creare: Crasso da una parte e Pompeo dall?altra, entrambi con i loro eserciti nei pressi della città. Il senato si ritrovò all?improvviso tra l?incudine e il martello, in una situazione di tale debolezza politica da mettere in forse il futuro stesso delle istituzioni. Se era vero che teoricamente deteneva ancora il potere, il consesso dei “padri ottimati” si rese improvvisamente conto che la sua forza equivaleva a quella di un paralitico sul letto di morte. In quelle condizioni non fu difficile per i due condottieri mettersi d?accordo per una spartizione sommaria delle spoglie dell?ormai defunta repubblica. Entrambi riuscirono a farsi eleggere alla carica di console ma, quel che era più importante, avevano entrambi lo stato in pungo. Se prima Roma era passata attraverso la triste esperienza di un dittatore, ora provava l?emozione di?averne due in un colpo solo.

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Di Redazione Elzeviro.eu

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