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CAPITOLO I (Terza Parte) – Pompeo Magno, ovvero l’uomo che credeva di assomigliare ad Alessandro Magno

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di Roberto Crudelini

Per legittimare in qualche modo il loro assassinio istituzionale, Pompeo e Crasso dovettero, specialmente il secondo, turarsi il naso e accettare l?abbraccio del partito popolare. Per la verità, una volta raggiunta la porpora, si misero come avevano promesso, a smantellare il castello costruito da Silla, dimostrando apparentemente la loro buona fede nel portare a termine gli impegni presi. I tribunali vennero così riaffidati ai cavalieri, i tribuni della plebe riebbero il loro potere di veto, mentre ottantaquattro senatori furono letteralmente buttati a calci nel sedere fuori dalla Curia per il loro passato filosillano.
Un?interpretazione di quegli eventi più attenta e meno favolistica, ci porta inevitabilmente a vedere in questo nuovo ritorno alle libertà, soltanto un ottimo strumento di propaganda da parte dei due volponi. Propaganda necessaria ad ottenere il potere approfittando cinicamente della grave crisi in cui si dibatteva ormai da anni la vecchia classe dirigente di Roma. Fare propria la causa popolare premiava ed era, in quel momento, l?unico strumento in grado di garantire il successo personale.
Ad aggravare ancora di più la crisi politica ci si mise anche una nuova grana scoppiata in quel periodo in Sicilia, uno scandalo senza precedenti che aveva visto coinvolto il governatore della provincia, un certo Verre, che aveva ricevuto a suo tempo il mandato dal suo protettore Lucio Cornelio Silla. Verre, in questo comportandosi né più né meno come la quasi totalità dei suoi predecessori, aveva per anni rubato tutto quello che c?era da rubare sull?isola, ma aveva commesso un grave errore: mentre gli altri lo avevano fatto furbescamente, lui aveva superato ogni limite di umana decenza, facendo tutto alla luce del sole, in un modo esagerato, sfacciato arrogante. Non c?era opera d?arte che lui non avesse trafugato, non c?era contadino che non fosse stato da lui letteralmente spogliato e ridotto in mutande. Nulla in Sicilia sembrava essere sfuggito all?odiosa legge di Verre. Una vergogna che andava avanti da anni e che la paur mentre a e l?omertà dei collaboratori avevano tollerato permettendo al grande ladrone di ammassare una tale quantità di oro da far sembrare in confronto il tesoro pubblico il salvadanaio rotto di un bambino di sei anni.
Un bel giorno i siciliani (siamo nel 70 a.C.) stufi di finanziare le mega ville con piscina del bastardo, vennero in delegazione a Roma a chiedere udienza ad un giovane e rampante avvocato che si era a suo tempo guadagnata la fiducia degli isolani in qualità di questore: un certo Marco Tullio Cicerone, come Mario originario di Arpino ma, a differenza di lui, più portato all?eloquenza che all?arte militare. Costui, sebbene appartenesse alla stessa classe politica da cui proveniva Verre, se ne infischiò di convenienze politiche e, rischiando così di mettersi contro l?intero senato, accettò di prendere le difese di qui poveracci dei Siciliani.
Cicerone riuscì a portare decine e decine di testimoni a suo favore mentre il suo avversario, l?avvocato Ortensio Ortalo, cercò di prolungare in tutti i modi il dibattimento, nella certezza comunque di poterla spuntare. Ala fine la causa fu vinta da Cicerone, un?impresa clamorosa se pensiamo che gli stessi pretori giudicanti erano dalla parte di Verre, sia per convenienza politica che per?gratitudine (si erano tutti rifatti casa grazie a lui). Quest?ultimo, in seguito alla sentenza, dovette sborsare un bel po? di quattrini a titolo di risarcimento danni. Certo non andò in gattabuia come avrebbe meritato, ma per quei tempi era pur sempre un risultato eccezionale: da quel giorno gli amministratori locali non avrebbero più avuto la certezza dell?immunità.
In questo quadro di “idilliaca democrazia” e di improvvisate ed inaspettate affermazioni popolari, Crasso e Pompeo finirono per sciogliere i loro due eserciti nello stesso momento, non senza aver prima dato vita ad intense ed estenuanti trattative. Evidentemente nessuno dei due si fidava dell?altro e ben sapeva che la rinuncia alla propria nutrita?guardia del corpo lo avrebbe messo in condizioni di assoluta vulnerabilità.
Pompeo, alla fine del suo consolato, non accettò nessuna destinazione fuori Roma, come succedeva ai consoli che avevao finito il loro mandato. Tale decisione non era frutto di umiltà o di onestà, ma di puro calcolo politico. A lui non interessava il semplice governo di qualche provincia, sapeva infatti che l?evolversi della situazione internazionale avrebbe prima o poi richiesto da parte sua un intervento di ben altro spessore.
Il destino lo avrebbe premiato alla grande: nel 67 a.C. il senato di Roma decise di affidargli l?incarico di combattere la pirateria nel Mediterraneo. Incarico che lo avrebbe portato inevitabilmente ad occuparsi anche delle faccende di tutta l?area mediorientale. La pirateria era tornata a dilagare in tutto il Mediterraneo, rischiando di diventare un fenomeno ormai incontrollabile. I briganti del mare si erano ormai organizzati a tal punto da avere una vera e propria flotta, basi e porti un po? dovunque, ma?soprattutto i finanziatori giusti. Uno di questi era il re del Ponto Mitridate con cui Silla aveva già avuto modo di incrociare le armi. Questa gran canaglia vedeva nella pirateria, oltre ad un buon investimento (si assicurava in questo modo una buona percentuale sui bottini) anche uno strumento per cercare di isolare tutta l?area dall?influenza romana. Mitridate vedeva giusto: l?aumento vertiginoso degli attacchi pirateschi negli ultimi tempi aveva finito col mettere in forse l?intero sistema di rifornimento da e per l?Oriente.
Per Roma era giunto il momento di reagire con energia e con fermezza, ma come al solito si finiva sempre per ricadere nello stesso problema: risolvere la questione rischiando di dare un potere immenso a qualcuno, e quel qualcuno, manco a farlo apposta, era di nuovo il nostro Pompeo Magno. Come era logico aspettarsi, prevalse la pura ragione di stato: soltanto lui dava quelle garanzie necessarie per sperare in un esito positivo dell?impresa, ovvero mettere la parola fine alla pirateria, sradicando una volta per tutte un male che tornava ciclicamente a disturbare il sonno di armatori, finanzieri e governanti. Una vittoria non definitiva avrebbe infatti permesso col tempo ai pirati di riorganizzarsi e di rialzare la testa: per uccidere quell?idra dalle cento teste occorreva andare direttamente al cuore.
Fu così che alla fine, in tutta fretta, venne approvata una legge che dava a Pompeo pieni poteri per combattere i pirati, pieni poteri che riuscì a sfruttare fino in fondo, tanto che, nel giro di pochi mesi, fece piazza pulita di pirati, corsari e?bucanieri. Finita la pratica in modo rapido e veloce, restava ancora aperto un problemuccio non indifferente: fare la festa a quella vecchia carogna di Mitridate, sempre pericoloso e sempre pronto a tramare contro gli interessi di Roma. Anche con lui bisognava quindi chiudere i conti una volta per tutte e, visto che il chiodo era ancora caldo, venne approvata una nuova legge (la legge Manilia) che questa volta dava pieni poteri a Pompeo contro il vecchio satrapo d?oriente. Una grossa mano nell?occasione gliela diedero Cicerione e il giovane Giulio Cesare, uomo emergente della politica romana. Entrambi perorarono la causa di Pompeo, il primo per motivi squisitamente politici, il secondo per bieca convenienza personale.
Il senato, messo di fronte al rischio di una spaccatura tra occidente e oriente, evenienza neanche poi tanto recondita se Mitridate fosse riuscito nel suo intento, finì per mettersi definitivamente fuori gioco: Roma, per risolvere le grandi questioni internazionali, non poteva più fare a meno dell?aiuto e della protezione dio un uomo forte, con tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate.
Anche questa volta non c?era tempo da perdere, infatti Mitridate, alleatosi con re Tigrane d?Armenia, aveva già invaso nel 75 a.C. la Cappadocia e la Bitinia, da tempo protettorati di Roma. Anche ora Pompeo diede una bella accelerata agli eventi costringendo nel 66 a.C. lo stesso Mitridate alla resa e poi al suicidio, il tutto con una facilità a dir poco irridente. Non contento di ciò Pompeo, approfittando del relativo vuoto di potere e dello stato generalizzato di anarchia in cui il vecchio regno dei Seleucidi era caduto, conquistò in un colpo solo tutta la Siria, poi, visto che c?era, fece una capatina nella vicina Gerusalemme.
Il suo vero capolavoro però fu di carattere diplomatico: Pompeo, in seguito al sui prolifico vagabondare, finì per dare a tutta la regione mediorientale un nuovo assetto politico e geografico, ovviamente a favore di Roma. Alle province di Bitinia, Asia e Cilicia, si aggiunsero quelle della Paflagonia, del Ponto e della Siria. Inoltre, per dare maggiore stabilità e difesa a tutta l?area, Pompeocreò attorno a queste province tutta una serie di stati cuscinetto (la Galazia, la Cappadocia, l?Armenia e la stessa Giudea) formalmente indipendenti ma sostanzialmente controllati da Roma.

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Di Redazione Elzeviro.eu

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