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Lavorare “da morire”

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“Nessuno deve più lavorare e morire come Paola” sono queste le parole che Stefano Arcuri, vedovo di Paola, ha rivolto ai magistrati, ai politici, agli investigatori.
Paola era sua moglie, una donna di 49 anni e madre di tre figli. Il 13 luglio scorso é morta. Di fatica, nei campi di Andria dove ogni mattina si recava a raccogliere l’uva. 
Andria dista circa 150 chilometri da San Giorgio Jonico, paese dove Paola risiedeva con la sua famiglia. La donna si alzava alle 2.00, alle 3.00 usciva di casa per prendere il pullman che l’avrebbe condotta nelle campagne. 13 ore di lavoro per meno di 30 euro. Eppure di quei soldi Paola aveva bisogno, un mutuo da finire di pagare, una famiglia da mantenere. 
Lontano dai resort a cinque stelle della Puglia che noi turisti conosciamo, ci sono 40mila braccianti  che lavorano nei campi per una manciata di euro. Sono le nuove schiave, tutte italiane. 
Contro questo sistema il Governo ha approvato una legge che prevede fino a sei anni di carcere e la confisca di tutti i beni per chi sfrutta la manodopera. 
“Paola l’abbiamo ritrovata nella camera mortuaria del cimitero” dice Stefano. 
La sua salma é stata riesumata e i medici hanno confermato che a stroncarla è stato un infarto dovuto all’eccessivo lavoro.
Stefano ed i suoi figli chiedono giustizia in attesa del processo. E chiedono che questi episodi non accadano mai più. 
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Di Gabriele Tebaldi

Classe 1990, giornalista pubblicista, collabora con Elzeviro dal 2011, quando la testata ha preso la conformazione attuale. Laurea e master in ambito di scienze politiche e internazionali. Ha vissuto in Palestina, Costa d'Avorio, Tanzania e Tunisia.

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