Quei fondi potranno poi essere versati ai singoli Stati membri sotto forma di trasferimenti dal bilancio europeo (dunque a fondo perduto) e non di prestiti. Tutto bene, dunque? Non necessariamente. Innanzitutto, come abbiamo detto più volte, l’emissione di titoli comuni non rappresenta di per sé un’innovazione rivoluzionaria: già lo fa il Meccanismo europeo di stabilità (MES), per intenderci. Per quanto riguarda la questione dei “trasferimenti a fondo perduto”, è presto per cantare vittoria.
Se è vero, infatti, che i singoli Stati non saranno chiamati a rimborsare individualmente le somme ricevute, è altrettanto vero che però tutti gli Stati membri saranno chiamati a rimborsare (in base al PIL) il debito comune emesso dalla Commissione. E questo comporterà ovviamente trasferimenti significativi da parte dei maggiori Stati della UE, inclusa l’Italia, attraverso un maggiore prelievo fiscale.
Dunque alla fine, come vale oggi per il bilancio europeo, a determinare se un paese ci avrà guadagnato o meno dal Recovery Fund sarà il saldo finale tra la somma che avrà ricevuto dal fondo in questione e la somma che invece sarà chiamato a metterci dentro. Tanto per capirci: anche oggi l’Italia riceve finanziamenti “a fondo perduto” dalla UE, ma il suo saldo complessivo è negativo, il che vuol dire che l’Italia versa più soldi di quanti ne riceva dall’Europa.
Inoltre i fondi non saranno certo incondizionati: come recita il documento franco-tedesco, i finanziamenti «si baseranno su un chiaro impegno da parte degli Stati membri a perseguire politiche economiche virtuose e un ambizioso programma di riforme». Ora, che “politiche economiche virtuose” sia sinonimo di austerità fiscale e “ambizioso programma di riforme” sia sinonimo di controriforme neoliberiste ormai lo sanno anche i bambini.
D’altronde Manfred Weber, capogruppo tedesco del Partito Popolare Europeo (PPE), l’ha detto chiaramente in un’intervista alla Repubblica l’altro giorno: «Siamo disposti ad aiutare finanziariamente l’Italia per evitare l’Italexit, ma vogliamo controllare come Roma usa i soldi». Insomma, a ben vedere questo Recovery Fund – che comunque deve ancora passare per le forche caudine dei paesi del nord – assomiglia tanto al MES.
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