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Nazionalizzazione, quella parola che fa paura a politici e UE

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L’UE è un alibi per una classe politica indegna

di Paolo Desogus

Com’era prevedibile la parola “nazionalizzazione” per il caso ex Ilva non è stata pronunciata per evitare la chiusura degli stabilimenti di Taranto. Eppure non ci sarebbero impedimenti a proporla. Almeno da un punto di vista formale i Trattati europei non vietano infatti la nazionalizzazione di un’impresa strategica. Hanno molto da ridire sul tipo di gestione, ma non impediscano che un’impresa privata possa passare nelle mani del pubblico. Lo stesso discorso può essere applicato per Alitalia.

Perché allora non si procede in quella direzione?

Facciamo un passo indietro. L’Ilva e l’Alitalia erano pubbliche in una fase nemmeno molto remota in cui con l’IRI lo stato deteneva una larga parte della produzione italiana. I liberali dell’epoca dicevano però che lo stato controllava dei carrozzoni, ma numeri alla mano sino agli anni Ottanta l’Italia era una grande potenza industriale, capace di tener testa alla Francia e alla Gran Bretagna, che oggi hanno invece un PIL il 50% più grande.

Però niente, per i liberali e la maggior parte dei giornali l’Italia era un paese arretrato. Ce lo ricordiamo tutti, nei primi anni Novanta si diceva che dovevamo modernizzarci, diventare europei, “eliminare i lacci e lacciuoli” dello stato, favorire il privato, stimolare la libera iniziativa, dare slancio alla creatività degli italiani e altre minchiate di questo tenore.

Per carità, nessuno nega che ci fossero dei problemi e che il pubblico avesse molti limiti. Nessuno nega inoltre il clientelismo, la corruzioneInvece di riformare quel sistema si è però preferito abbatterlo sia materialmente che storicamente attraverso la costruzione di una retorica sulla prima repubblica totalmente falsata e tendenziosa. E che cosa ne è venuto fuori? Gran parte dell’industria di stato è stata letteralmente svenduta ai capitalisti italiani che non hanno saputo che farsene e in qualche caso hanno avuto la bella pensata di rivedere agli stranieri. Molte fabbriche sono state chiuse creando aree di povertà enormi. Io ad esempio sono cresciuto in una di queste, il Sulcis. Persino la gestione delle autostrade è stata ceduta con regole assurde, che tutelano il gestore a discapito dello stato e dei cittadini che hanno pagato per la costruzione di quelle infrastrutture con la fiscalità generale.

Il risultato è che oggi l’Italia è un paese sempre più povero, sempre più arretrato, incapace di sollevarsi da questa situazione di crisi e soprattutto esposto all’assalto di forze politiche da temere.

Era dai tempi del dopoguerra che l’Italia non viveva una simile condizione di Cenerentola del continente, ovvero di paese arretrato, immobile, ancora più corrotto del passato. Eppure nell’opinione pubblica la linea è dettata dagli stessi liberali che sghignazzavano perché l’IRI produceva panettoni e gelati, e che ora parlano di velocità, rapidità, start up e altre minchiate tipo “Matteo Renzi”. La loro ottusa mentalità contro il pubblico si è diffusa praticamente tra tutti i partiti politici i quali hanno giustificato lo scempio attuale con la frase “ce lo chiede l’Europa“. C’è persino chi fra loro dice che se le cose non sono andate bene, è perché non si è privatizzato abbastanza e che lo stato deve vedere di più, per essere ancora più europei, più moderni.

Ora, è probabile che dall’Europa siano effettivamente giunte indicazioni per la privatizzazione delle industrie del paese. Prodi lo ha ammesso anche qualche settimana fa. Ma non stava scritto da nessuna parte che occorreva piegarsi come abbiamo fatto noi: Prodi dovrebbe assumersi la responsabilità delle sue scelte ed opporsi ad indicazioni informali favore delle privatizzazioni. Per quanto poi riguarda il presente non è affatto vero che non esistano dei margini di ritorno al pubblico, che di fatto continua ad esistere in molti paesi europei. Io sono tra quelli che considerano l’UE un irrimediabile fallimento, che ci costringerà per molto tempo a questa fase di mezzo (né più Europa, che nel resto del continente non vuole nessuno, né meno Europa, che almeno per ora non vogliono i tedeschi), da cui traggono vantaggio alcuni paesi a discapito di altri, tra cui noi.

Ma esistono anche responsabilità tutte italiane, tutte nazionali.

La subalternità del nostro paese è prima di tutto dovuta a una classe politica che vuole essere tale per non assumersi alcuna responsabilità e per poter continuare a guadagnare qualche strapuntino dei centri di potere dei nostri “provincialerrimiliberali italiani. Ecco perché la parola “nazionalizzazione” non è ancora venuta fuori.

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Redazione Elzeviro.eu

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