La fine dello stato sociale e la totale immobilità del popolo italiano.
Era il 1898 quando in Italia venne istituita la cassa nazionale di assicurazione per invalidità e invecchiamento. Da quel momento in poi nel nostro paese vennero fatti numerosi passi in avanti sul fronte assistenziale e non solo, fino a raggiungere il picco negli anni 60′ e 70′ del 900′.
Dopo un ventennio di benessere e rafforzamento della classe media, il welfare state deve fare i conti con il debito pubblico e con una crescita che secondo gli esperti non può assorbire i danni generati da esso. Oltre a questo problema, va sottolineato l’effetto globalizzazione che in Italia assume i connotati peggiori: aziende che delocalizzano all’estero, elitè di potere che puntano a mantenere la propria posizione a discapito degli altri, fallimento (allo stato attuale) del processo di informatizzazione dei cittadini italiani, scomparsa della classe media e infine (recentemente) la ormai quasi sicura perdita del posto fisso.
Queste conseguenze sono andate intensificandosi negli ultimi anni con l’avvento dei così detti “governi scelti dall’alto”. Partendo da Mario Monti e arrivando fino a Matteo Renzi vi è una linea comune, che con il sindaco di Firenze ha subito un impennata, grazie soprattutto al forte consenso.
In qualsiasi paese dove vige il contratto flessibile (vedi Scandinavia, Nuova Zelanda ecc.) non si rimane mai effettivamente senza lavoro. Generalmente, una volta perso il lavoro precedente, si riceve supporto dallo stato o dalle agenzie private per la ricerca istantanea di un’altra attività. Questo processo si risolve nei casi limite entro una o due settimane. In Italia questo non avviene e non avverrebbe. Ad oggi le aziende italiane assumono con fatica e dove assumono facilmente è grazie ai così detti “contratti in nero legalizzati” (vedi ad esempio i contratti a chiamata). Poi ci sono naturalmente delle eccezioni, che però sono percentualmente irrilevanti rispetto alle restanti situazioni.
Una soluzione semplice al problema sarebbe innanzitutto la semplificazione dei contratti di lavoro. Attualmente in Italia possiamo annoverare ben 50 forme contrattuali. Per raggiungere una situazione ideale per la flessibilità, bisognerebbe ridurre del
Ma nel Jobs Act tutti questi passaggi sono inesistenti. Allo stato attuale il testo equivale ad una guerra tra imprenditori e lavoratori dipendenti. Basta scorgere le possibilità di reintegro del lavoratore in caso di crisi economica, oppure la ridicola regola che sotto i 15 dipendenti permette forme di licenziamento con indennizzi insufficienti per il lavoratore. Per capire fino in fondo questo punto bisogna guardare i movimenti di molte grandi aziende attraverso un esempio. L’azienda che per comodità chiameremo “Papero” ha 50 dipendenti per la maggior parte adulti e con esperienza, che ricevono stipendi adeguati alla loro anzianità. Ma il capo di “Papero” è stanco di pagare così tanto i propri dipendenti, così com’è stanco di non poterli licenziare liberamente (tradotto non ha potere di minaccia), allora decide di spacchettare l’azienda “Papero” in 5 aziende al di sotto dei 15 dipendenti gestite da parenti o amici stretti, riuscendo senza problemi a raggiungere il proprio obbiettivo. È quindi palese come questa riforma penda dalla parte degli imprenditori, che sono pronti ad approfittarsi dei propri lavoratori dipendenti.
In questa situazione è altamente probabile la fine dello stato sociale, che ha visto molte persone lottare e addirittura morire per gli stessi ideali che ora vengono calpestati senza ritegno dall’ultimo arrivato.
È giunto il tempo di creare un’alternativa.
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