In Fuorigioco

L’infinita deriva della propaganda nel calcio femminile

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Un mese di propaganda serrata non è bastato: ieri Le Monde ha accusato la nazionale USA di discriminare le minoranze etniche, mentre oggi La Stampa è arrivata ad eleggere le calciatrici americane autentiche paladine dei diritti. Naturalmente, contro il perfido Trump.

Non è bastato menare il torrone per oltre un mese con una disciplina che, dal punto di vista prettamente spettacolare, non interessa a nessuno al di fuori di una nicchia molto ristretta. Non è bastato sacrificare sull’altare della retorica delle ragazze inconsapevoli, che, alla stregua dei loro colleghi maschi più blasonati, non volevano altro se non tirare due calci ad un pallone.

Non è bastato nemmeno strumentalizzare in maniera viscida una competizione sportiva, di modo da creare un vessillo da sventolare durante l’ennesima ammorbante battaglia di genere.

No, perché come asseriva giustamente Adriano Scianca nella giornata di ieri, le istanze e le icone del politicamente corretto sono incredibilmente fluide e soggette a forti metamorfosi già nel brevissimo periodo. Ciò che era un simbolo una settimana fa, ora potrebbe addirittura essersi trasformato in una potenziale epidemia di razzismo, a causa della non sufficiente tutela di quella o quell’altra minoranza.

Motivo per cui ora, dopo un mese di esaltazione verso il calcio femminile, che, tutto d’un tratto, è diventato il gioco più popolare e desiderato del mondo occidentale (anche grazie ad una vera e propria opera di propaganda mediatica), l’aspetto del riscatto esclusivamente sportivo non basta più.

La disinteressata celebrazione della nazionale USA sulla prima pagina de La Stampa

E così, prima Le Monde accusa la nazionale americana di discriminazione etnica (leggasi “troppe bianche in squadra”), poi La Stampa pensa bene di chiosare questa colossale messinscena con uno di quei titoli che sanno di prezzemolino buono per ogni testata liberal: le americane regine del calcio sfidano Trump sui diritti.

Accantonando il fatto che se avessimo un euro per ogni celebrità che ha sfidato Trump su razzismo/sessismo h24 – con semplici slogan davanti ai riflettori –  saremmo più ricchi persino dello stesso Tycoon, questo copione è paradigmatico della scarsa solidità del retroterra culturale del progressismo. Un movimento schiavo dei capricci di piccole comunità, che ha costantemente bisogno di alzare l’asticella per rimanere à la page.

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Filippo Klement

Classe 1990, ha studiato giurisprudenza, a latere un vasto interesse per la storia contemporanea e la politica.

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