Il modello coreano di limitazione dei contagi, mediante la tracciabilità dei cittadini positivi al nuovo Covid, ha suscitato tanto scalpore quanta curiosità. Reduce nel 2015 di diversi casi di Mers (sindrome respiratoria acuta del medio oriente), Seul ha affrontato l’epidemia di Coronavirus sfruttando, oltre a stazioni mobili per strada e visite nelle abitazioni per effettuare test di verifica, le nuove tecnologie. Ecco che i Big Data hanno giocato un ruolo fondamentale nella classificazione di cittadini contagiati tracciandone gli spostamenti. L’app coreana ‘Corona 100m’ è un sistema centralizzato che rende pubblici gli spostamenti dei cittadini contagiati tramite Gps e telecamere di controllo.
Sebbene in un primo momento l’uso di tale tecnologia si sia rivelato efficace, questo metodo può essere considerato invasivo soprattutto per quello che riguarda la gestione dei dati personali.
Tra i paesi incuriositi troviamo anche la nostra cara Italia e quindi il Ministero dell’Innovazione che, il 24 marzo, aveva aperto un bando di soli tre giorni per la presentazione di una nuova tecnologia che potesse tracciare i contagi. La selezione, guidata da ben 74 esperti, si è conclusa la scorsa settimana indicando due possibili soluzioni: l’app proposta dalla Bending Spoons e la CovidApp sviluppata dalla Sixth Sense. Tale innovazione dovrebbe accompagnare i cittadini durante la tanto attesa fase 2, dove non si avrà più una quarantena di massa, ma essa riguarderà unicamente le persone positive.
potrebbe essere un enorme vantaggio quello di tracciare i contagi, ma non bisogna dimenticare che la raccolta di tali dati può comportare un enorme problema nel complesso mondo della privacy online. Come affrontato in precedenza i dati si dividono in due grandi categorie: i dati personali e i tanto complessi dati sensibili tra i quali troviamo lo stato di salute.
L’articolo 9 del General Data Protection Regulation ci dice che ‘i dati sensibili non devono essere trattati salvo consenso esplicito dell’interessato o in caso di necessità’. Ciò ci suggerisce che è possibile farlo senza intaccare la privacy e questo obiettivo è garantito dalla PEPP-PT. La PEPP-PT, sigla che sta per Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing, è un’organizzazione no-profit che comprende 130 membri tra i quali troviamo in primo piano Vodafone. Tra i contribuenti della PEPP-PT troviamo anche la ISI Foundation, fondazione torinese che si occupa di ricerca nell’ambito della data science. Lo scopo di tale organizzazione è quello di rilevare le possibili catene di contagio attraverso il proximity tracing ovvero tracciando la prossimità di due persone che entrano in contatto attraverso un identificatore (ID) anonimo, conservato su un database locale.
Le informazioni non potranno essere consultate da nessuno e saranno eliminate una volta non ritenute più rilevanti epidemiologicamente.
Questa tecnologia permette di inviare un messaggio a chi è entrato in contatto con un soggetto positivo. Le autorità sanitarie inviano a colui che può aver contratto il virus un codice da inserire nell’app che automaticamente contatta tutti i dispositivi, o meglio le persone con cui si è entrati in contatto dopo l’esposizione sospetta.
L’acquisizione dei dati sensibili è sempre stata una meta molto ambita dalle multinazionali a scopo di lucro. Così facendo dovremmo concedere l’accesso ai nostri contatti, alla posizione e al nostro stato di salute. Quindi la vera domanda è: siamo disposti a regalare i nostri dati senza avere la certezza che essi siano realmente e concretamente custoditi?
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