E’ passato poco più di un anno da quando Giovanna Botteri, in seguito all’inaspettata vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane, sfogò in diretta la sua frustrazione per il risultato delle urne, segnando uno spartiacque tanto clamoroso, quanto agghiacciante nella storia del giornalismo contemporaneo.
“Non si è mai vista, mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta e unita contro un candidato… evidentemente, la stampa non ha più forza e non ha più peso in questa società americana. Le cose che sono state scritte e le cose che sono state dette, evidentemente, non hanno contato su questo risultato e non hanno influito su questo elettorato che ha creduto a Trump.” Un vero e proprio outing da parte dell’inviata della Rai. Un fatto che sarebbe scorretto liquidare frettolosamente come la rivelazione del proverbiale segreto di pulcinella.
La portata di quel gesto fu incredibilmente significativa, perché paradigmatica di una categoria disposta a gettare definitivamente la maschera e disposta ad ammettere esplicitamente il suo reale obiettivo, neutralizzando gli ultimi residui di pudore. La Botteri ammise di far parte di un mondo al di sopra delle parti.
Un mondo in cui il notiziario si trasformava in propaganda, in cui il veicolo delle notizie reali si trasformava in burattinaio della realtà. Un mondo deputato (non si sa da chi) a plasmare le coscienze, orientare la società civile ed influenzare il libero arbitrio dei singoli. Non ascoltare le istruzioni di quel mondo, corrisponderebbe ad un atto di lesa maestà.
E’ passato poco più di un anno e l’arroganza di quella categoria si manifesta con modalità sempre più nette. L’esempio più recente di questa sgradevole prassi, è stato fornito dalla vicenda che ruota attorno alla celeberrima capocciata di Roberto Spada, nella quale i media nostrani hanno dimostrato un totale sprezzo per i più basilari principi del diritto. Arrivando, in taluni casi, ad influenzare persino il corso della giustizia.
L’aggressione subita da Daniele Piervincenzi è stata tanto deprecabile, quanto vigliacca e la ricerca di un alibi va lasciata a coloro i quali abbiano perso contatto con la realtà, magari a causa di una smodata attrazione verso Suburra.
Tuttavia, il provvedimento adottato nei confronti del pugile ostiense (ad oggi incensurato) risulta essere un virtuoso artifizio, confezionato ad hoc per placare la sete di vendetta della categoria giornalistica. Il clamore mediatico suscitato dalla vicenda e la richiesta della testa di Spada a furor di stampa, hanno pesantemente condizionato la magistratura, che non si è dimostrata né autonoma, né indipendente.
Il fermo infatti, può essere disposto soltanto in presenza di determinati requisiti, tra i quali devono sussistere i gravi indizi di commissione di un delitto, per il quale la legge preveda la reclusione non inferiore nel minimo a due anni e superiore nel massimo a sei. Requisiti che, neanche a dirlo, non soddisfa né il reato di violenza privata, né quello di lesione personale.
Ecco che il p.m. si è inerpicato nella ricerca dell’aggravante che legittimasse un provvedimento immediato e d’impatto, estraendo dal cilindro il metodo mafioso.
Nelle immagini che ci sono state proposte all’inverosimile negli ultimi giorni, si vede una sola cosa: un colpo di testa in senso sia fisico, sia metaforico. Quella di Spada è una reazione animalesca, da bullo. La reazione di un coatto, al quale, nei momenti di difficoltà, non viene certo in soccorso l’arte della dialettica, ma solo la violenza belluina.
Il Gip Anna Maria Fattori, dopo aver convalidato il fermo, ha motivato la sua decisione asserendo che “Spada ha voluto documentare la propria forza e capacità di intimidazione con espressioni minacciose e molto esplicite… ha voluto dare forza ed efficacia al proprio potere in un territorio caratterizzato da uno stato di assoggettamento e da una garanzia di impunità che deriva dall’omertà di chi ci vive”. Un bell’esercizio di fantasia, data l’evidente impulsività del gesto. Un esercizio che fortifica il sospetto di un provvedimento squisitamente mediatico.
Questa lunga telenovela inoltre, ha fatto registrare la sovversione di un altro principio cardine non solo del nostro codice penale, ma anche di quella Costituzione che spesso i giornalisti nostrani venerano come un prodotto di natura messianica. La responsabilità penale, oltreché personale, pare possa diventare anche politica, a seconda dei casi. Per la precisione, se la commissione di un reato avviene ad opera del presunto elettore di un partito sgradito al pantheon mediatico, allora sono i leader di quella stessa formazione politica a dover essere messi alla gogna.
Poco importa che il regno del clan Spada sia un comune commissariato per infiltrazioni mafiose. Poco importa che l’ex Presidente del Municipio di Ostia, oltre ad essere un esponente del Partito Democratico, sia stato condannato a 5 anni di reclusione al termine della sentenza su Mafia Capitale. Poco importa che Roberto Spada, in vista delle precedenti elezioni comunali, avesse dato il suo endorsement al candidato grillino. La responsabilità di questa violenza sembra essere di CasaPound.
Sarebbe curioso sapere quanti assassini, ladri o stupratori abbiano espresso una loro preferenza elettorale verso il PD o Forza Italia, almeno una volta nella vita. Eppure, la ricerca delle tessere di partito e delle intenzioni di voto sbandierate sui social (sì, il famoso voto segreto), non sembra essere mai stata un’attività portante nelle indagini delle varie procure.
Parole che potrebbero essere molto utili ai suoi colleghi. In particolar modo a quelli capaci di trasformarsi, a seconda delle evenienze, vuoi in paladini del garantismo, vuoi in ciechi inquisitori giustizialisti.
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