I 5 stelle, eccezion fatta per quel cieco e fedele guardaspalle che risponde al nome di Fatto Quotidiano, non hanno santi in paradiso. Questo è ormai conclamato e di facile riscontro. Abbastanza prevedibile d’altronde, se si riflette su ciò che i pentastellati vorrebbero rappresentare.
Il MoVimento che fu di Casaleggio, scese in campo una decina di anni fa, annunciandosi come nuova forza alternativa, nonché proclamando di voler sovvertire un sistema politico ormai consolidato dai tempi di Tangentopoli. Quello della dicotomia destra-sinistra, della corruzione endemica, dei politici spreconi, delle amministrazioni che depauperano irresponsabilmente le risorse dei contribuenti e del palazzo che sistema al suo interno gli amici e gli amici degli amici.
Il rapporto di causalità quindi, giustifica ampiamente i continui accanimenti da parte dei media e della galassia intellettuale al servizio dei partiti tradizionali. In questa situazione, gli adepti di Beppe Grillo ricordano nitidamente quegli alunni verso i quali la maestra, in virtù di una profonda antipatia personale, infieriva senza pietà. Per completezza d’informazione però, si tratta anche di quegli alunni talmente chiassosi e talmente poco dotati di scaltrezza, da farsi cogliere in flagrante ad ogni occasione, finendo così per giustificare le inique persecuzioni dell’insegnante.
Parallelismo che non risulta assolutamente forzato se si ripercorrono gli strafalcioni a 5 stelle, i quali ormai offrono un campionario di proporzioni bibliche, che spazia dalla cattiva amministrazione, sino alla goffa strategia comunicativa.
Nell’estate del 2016, ai grillini capita tra le mani l’occasione per tentare la svolta: la possibilità di governare due dei quattro agglomerati urbani più importanti d’Italia.
Roma e Torino infatti, rappresentano la grande opportunità che i proseliti del MoVimento attendono dall’inizio della loro esperienza politica. E’ giunto il momento di spogliarsi dal ruolo di opposizione dal mero connotato fraseologico, è giunto il momento di dimostrare il proprio valore a tutti i detrattori ed è giunto il momento di mettere in pratica quel cambio di rotta tanto auspicato.
Il risultato è stato tragicomico. A Roma la Raggi, pur avendo avuto il privilegio di succedere ad Alemanno e Marino (due che nell’immaginario popolare dell’Urbe non hanno lasciato esattamente lo stesso ricordo di Giulio Cesare e Augusto), ha inanellato una serie di scivoloni da far invidia al miglior Frank Drebin.
Dopo aver aperto le danze con un incomprensibile ed improvviso dietrofront sulla costruzione del nuovo stadio della Roma, il sindaco ha continuato a far parlare di sé per la mala gestione della crisi idrica, con conseguente richiesta al Governo dello stato di emergenza e per essersi appellata ai cambiamenti climatici quando la sua città si è ritrovata paralizzata (esattamente come le precedenti amministrazioni tanto schernite ai tempi in cui si trovava all’opposizione) dal primo nubifragio del suo mandato.
Senza dimenticare, naturalmente, il recente avviso di garanzia nell’ambito della nomina di Renato Marra a capo del Dipartimento Turismo del Campidoglio. Se nell’udienza del 9 Gennaio si dovesse pervenire ad un rinvio a giudizio, la Raggi si vedrebbe costretta a difendersi per falso ideologico in piena campagna elettorale.
Essere a capo di una città storicamente abile nel restare distante dalle luci della ribalta invece, ha consentito alla sua omologa torinese di dormire sonni inizialmente più tranquilli. Sonni che la tragica notte di Piazza San Carlo ha interrotto in modo brusco e violento, gettando l’amministrazione Appendino e la sua città nell’occhio del ciclone.
La portata di quegli incidenti (1 morto e 1500 feriti) ha risvegliato l’attenzione della stampa nazionale verso la città sabauda, a tal punto da non limitarsi all’inevitabile cronaca dell’avviso di garanzia per omicidio e disastro colposo o dell’analogo provvedimento per falso ideologico nell’ambito della vicenda Ream.
Addirittura le dimissioni del suo capo di gabinetto Paolo Giordana, hanno generato un clamore mediatico su ampia scala. Un clamore che l’annullamento di una multa non meriterebbe, a meno che tu non sia un alfiere dello stesso partito che ha portato avanti per anni quegli ampollosi sermoni contro la disonestà delle istituzioni.
Dulcis in fundo, come se il partito non avesse già prestato il fianco a sufficienza, ci ha pensato Luigi Di Maio a dimostrare la più assoluta inettitudine dei vertici pentastellati anche dal punto di vista comunicativo.
Le derisioni, gli sfottò e i meme scaturiti in seguito alla ritirata dal confronto che lo stesso Di Maio aveva richiesto (con estrema arroganza) a Renzi, sono più che appropriati, ma non devono distogliere l’attenzione dall’aspetto politicamente più importante. Il vicepresidente della Camera infatti, grazie ad una simile levata d’ingegno, non ha solo fornito una valida alternativa al repertorio di battute adolescenziali per svincolarsi dagli appuntamenti sgraditi (da oggi chi parlava dello yogurt che scade o della macchina in doppia fila, inizierà a citare questo episodio), ma ha anche concesso a Renzi l’opportunità di recuperare un barlume di credibilità, nello stesso momento in cui il Pd sta vivendo il più allarmante calo di consensi dalla sua fondazione. Di Maio ha visto il nemico affogare ed anziché tenere la sua testa sott’acqua, gli ha lanciato un salvagente.
I procedimenti giudiziari, la mala amministrazione e le gaffe non sono casuali, ma sintomatiche di un male più grande che affligge la genetica dei 5 stelle: l’inesistenza di un’anima politica. Nei grillini si possono trovare moderati delusi dalle esperienze politiche del centro-sinistra e del centro-destra, ex comunisti, ex membri di Avanguardia Nazionale, ma anche persone che non hanno mai provato il benché minimo interesse per la politica fino a quando la crisi non ha presentato il conto, declassandoli socialmente ed economicamente.
Un partito non può puntare alla guida di una nazione di 60 milioni di abitanti in simili condizioni. Senza un retroterra culturale ed ideologico, senza un manifesto filosofico e politico, senza dei medesimi riferimenti storici e senza degli intellettuali che veicolino un pensiero, non possono esistere né obiettivi comuni, né unione d’intenti. All’interno di una potenziale classe dirigente così frastagliata, l’assenza di un quid che faccia da collante e che vada a cementare la sua eterogeneità, non può che portare ad un’unica e logica conseguenza: l’implosione del sistema.
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