Autore: Gilberto Trombetta
Dopo la Fondazione Luigi Einaudi – che si è scoperto intascarsi quasi un quarto di milione di euro di fondi pubblici -, dopo l’Istituto Bruno Leoni, dopo Il Foglio che vuole vivere al di sopra delle copie vendute nonostante per anni abbia accusato il popolo italiano di aver vissuto al di sopra dei propri mezzi, è interessante andare a fare i conti in tasca alla scuola di Chicago dello Stivale: la temibile Bocconi di Milano.
Ebbene l’università liberale più rinomata d’Italia – la Bocconi medesima -, quella che ha “regalato” al Bel Paese i vari Monti, Alesina, Giavazzi, Bonino, Boeri, Boccia, Giorgetti, Sala e tanti altri campioni del liberismo nostrano, si becca ogni anno una bella quota di finanziamenti pubblici.
Sì, proprio quelli brutti e improduttivi. Infatti, solo nel 2018, su un totale di circa 68 milioni di euro di finanziamento pubblico agli atenei privati, la Bocconi se ne è intascata 8.677.281.
Per fare un confronto, secondo gli ultimi dati di Federconsumatori, il costo medio annuo delle tasse universitarie, per uno studente il cui reddito familiare rientra nella I fascia, ammonta a 477,88 euro, a 525,33 euro l’anno per la II fascia, 768,52 euro per la III, 1.197,69 euro per chi rientra nella IV fascia e 2.265,32 euro per quanto riguarda gli importi massimi, ovverosia di chi percepisce un reddito superiore a 30mila euro. Una media di 1.046 euro l’anno. Meno del doppio di quanto costa alle casse pubbliche uno studente che si forma privatamente alla Bocconi.
Come al solito, i liberali sono fatti così: predicano il libero mercato per gli altri, mentre loro si godono al calduccio l’intervento dello Stato che gli garantisce una vita dignitosa. Almeno rendessero come sostengono di fare, loro che non fanno altro che parlare – a sproposito – di produttività.
Perché, se per farsi del male si andassero a vedere le più importanti classifiche degli atenei al mondo, la Bocconi non compare. A differenza di molte università pubbliche italiane che sono eccellenze riconosciute a livello mondiale. Ma anche questo non dovrebbe stupire.
«Vi è poi un aspetto della “affermata” crisi della scienza economica che investe direttamente la politica economica, in quanto sono riaffiorate di recente orientamenti di pensiero che, contrapponendo “lo Stato” al “mercato” (secondo una tipica antitesi ottocentesca), attribuiscono agli interventi dei poteri pubblici nella vita economica un carattere perturbatore e destabilizzatore.
[…] Si sottolinea la validità del mercato, come forma organizzativa dell’assetto sociale, senza tenere conto delle numerose dimostrazioni fornite, attraverso il tempo, dei “fallimenti del mercato”. Poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio. Non si può non prendere atto di un recente reflusso neoliberista, ma è difficile individuarvi un apporto intellettuale innovatore».
Revisione ed impostazione grafica: Lorenzo Franzoni
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