Un affare che dimostra, ancora una volta, come le eccellenze italiane siano sempre più vittime di un incredibile lassismo da parte delle istituzioni governative e, di conseguenza, alla mercé di veri e propri ricatti economici da parte di attori stranieri.
In questo caso l’origine della trattativa con i sauditi sarebbe da far risalire al sovraintendente del Teatro alla Scala, Alex Pereira, che con troppa autonomia sembra aver cercato quest’aiuto finanziario dal Golfo. In sostanza il sovrintendente avrebbe trovato un accordo con funzionari del governo saudita per una cifra intorno ai 3 milioni di euro. Il capitale investito avrebbe permesso alla monarchia di Riyad di entrare nel cda della Scala. In cambio i sauditi hanno promesso la realizzazione di una scuola musicale per bambini all’interno del loro Paese, nonché la promozione della musica classica italiana.
La notizia dell’imminenza dell’accordo ha dato il via alla solita patetica danza di scarica barili tra i vari soggetti coinvolti. Pereira sostiene di aver avuto il benestare leghista, anche nella stessa figura di Matteo Salvini. Dal Carroccio hanno negato qualsiasi coinvolgimento, criticando invece l’iniziativa del sovrintendente e l’ambigua posizione del sindaco di Milano Giuseppe Sala.
Alla fine il versamento saudita è arrivato, ma i soldi verranno restituiti, facendo tramontare l’ipotesi di un ingresso saudita nel cda del Teatro milanese. Evidentemente anche chi bramava un sostegno economico della petrolmonarchia si è accorto di averla fatta decisamente fuori dal vaso. Come si poteva infatti pensare di legare indissolubilmente il nome di una delle più alte espressioni della cultura italiana al regime saudita? Come far collimare il luogo fulcro della musica classica italiana con un Paese reo non già solo del macabro omicidio di un attivista all’interno del consolato di Istanbul, ma principale responsabile della peggiore crisi umanitaria del secolo (Yemen)?
Se la cultura è da intendersi anche come massima espressione di libertà allora una simile collaborazione avrebbe comportato non pochi imbarazzi. La vicenda saudita non scriverà purtroppo però la parola fine al capitolo di questa storia. Realtà come il Teatro alla Scala per sopravvivere necessitano di nuovi capitali che, in assenza di uno Stato in grado di garantirli, si ritrovano costrette a rivolgersi all’estero. In questo caso le soluzione sono due. Turarsi il naso e accettare la presenza di realtà non eticamente e umanamente affidabili (i sauditi oggi, cinesi e fondi speculativi domani), oppure riconsegnare allo Stato questi gioielli di famiglia, in modo che ne possa garantire una dignitosa sopravvivenza.
In questo caso abbiamo scampato (l’improbabile?) pericolo del muezzin che canta alla prima della Scala, ma per quanto ancora si potrà resistere alle sirene dei petroldollari?
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