L’universo mediatico italiano grida alla sentenza medievale e maschilista. Sarebbe stato sufficiente leggerla, per evitare una figuraccia collettiva.
Diverso tempo fa, l’informazione italiana si imbatté nell’orlo di un burrone. Dopo aver guardato di sotto, non riuscendo a valutare la reale profondità del precipizio che le si palesava innanzi, decise di saziare la propria lovecraftiana passione per l’ignoto e si gettò in un esplorativo salto nel buio.
Peccato che da allora, il nostro sistema massmediatico stia continuando a fluttuare nella vana speranza di toccare un fondo che, disgraziatamente, sembra non arrivare mai. Una perpetua e vertiginosa caduta di stile, professionalità, passione e competenza, verso la quale nutriamo una notevole sensibilità e della quale ci siamo occupati in abbondanza. Da ultimo, in questo pezzo di G. Tebaldi: Il parmigiano, le armi chimiche e quel debunking a corrente alternata.
Non è solo un problema culturale
A dire il vero, nella maggior parte delle nostre analisi sulla drammatica parabola discendente del giornalismo nostrano, abbiamo spesso posto l’accento su un problema di carattere culturale. Nello specifico, quel processo di omologazione ed appiattimento di una realtà ostaggio dei propri editori, dei propri padrini politici ed inevitabilmente del loro pensiero (quello che qualcuno tende a definire “unico”): l’ultraliberismo progressista.
Un meccanismo che gli assidui frequentatori degli organi d’informazione più in vista ormai, conoscono a menadito e che si contraddistingue per l’arbitraria selezione delle fonti, l’emarginazione di personaggi dissidenti e la delegittimazione di opinioni ed analisi difformi dai loro teoremi geopolitici, economici e migratori.
Ciò nonostante, il fatto che l’informazione si sia trasformata in un grande salotto a compartimenti stagni impermeabile al dissenso, nel quale si dice solo ciò che la bibbia liberal-umanitaria ritiene eticamente accettabile, non esaurisce la diagnosi sui mali che affliggono la categoria. Spesso infatti, si finisce per sottovalutare alcuni problemi meno strutturali, ma comunque incredibilmente capillarizzati, come la semplice incompetenza o il mero disinteresse degli addetti ai lavori.
La sentenza della discordia
Un caso esemplare in tal senso, è stato fornito dalla pronuncia della Corte di Cassazione relativa ad uno stupro di gruppo, commesso da due cinquantenni ai danni di una ragazza, nell’ormai lontano 2009. Una sentenza che ha fatto gridare allo scandalo all’interno sia dell’universo politico (PD e FdI in prima linea), sia di quello mediatico. Con la significativa differenza rappresentata dal fatto che, se nel primo universo la strumentalizzazione è un’arte spesso funzionale alle proprie battaglie, nonché al miglior espletamento delle proprie funzioni, nel secondo denota semplicemente un vizio deontologico. Oppure, come nella fattispecie in questione, un peccato di pigrizia.
Alcune delle testate più autorevoli, sia in versione cartacea, sia telematica, hanno aperto non più di quattro giorni fa con titoli allarmanti, che gridavano ad un ritorno del Medioevo patriarcale e violento.
“La Cassazione fa discutere: Se la vittima ha bevuto volontariamente non c’è l’aggravante.” –Il Giornale–
“Stupro in caso di ubriachezza, sentenza della Cassazione fa discutere”
–Skytg 24–“Stupro, la Cassazione: Se la vittima si è ubriacata volontariamente non c’è aggravante”
–La Repubblica–“Stupro, quando la sentenza fa discutere”
–Adnkronos–
In realtà c’è poco da discutere. Bisogna solo armarsi di un pizzico di pazienza, leggere e mettere in pratica la vecchia cara comprensione del testo, onde evitare di esporsi al pubblico ludibrio con interpretazioni tanto superficiali, quanto risibili.
Breve incipit
Innanzitutto si tratta di una sentenza di rinvio, ovvero di un provvedimento con cui la Suprema Corte “rimanda” la decisione impugnata ad un giudice di pari grado rispetto a quello che ha emesso il giudizio cassato, affinché vi applichi dei correttivi. Nel fare questo infatti, la Cassazione delinea dei principi di diritto che dovranno essere seguiti dal destinatario del rinvio. Si tratta, in poche parole, non della richiesta di riformulare o riformare completamente il giudizio di merito, bensì di sostituire dei vizi di diritto o di forma, attenendosi alle indicazioni della Corte di Cassazione.
Purtroppo però, il risvolto raccapricciante non riguarda tanto l’omissione di un doveroso incipit che avrebbe consentito anche ai meno esperti una più agevole comprensione della vicenda, quanto la deriva interpretativa presente nel corpo dei suddetti articoli. Una deriva che si può riassumere con slogan lapidari come “per i giudici se la ragazza beve se l’è cercata”, oppure “bere volontariamente costituisce attenuante allo stupro”. Roba da radiazione di massa dall’albo.
La motivazione della sentenza
Analizzando il testo della sentenza della terza sezione penale della Cassazione eppure, non ci si imbatte in un’opera tesa a sminuire la violenza sessuale; tutt’al più, si tratta di un’energica tutela verso le vittime di una piaga sociale della nostra epoca, unita ad un’impeccabile applicazione delle disposizioni codicistiche.
I giudici, al contrario delle panzane riportate da certi gazzettieri di casa nostra, hanno confermato come la condotta dei due imputati integrasse la fattispecie prevista dall’articolo 609 bis, ovvero l’induzione “a compiere o subire atti sessuali, abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto”. Anzi, a voler essere precisi, nella motivazione della sentenza i giudici si sono persino lanciati in alcune considerazioni ultragarantiste, asserendo che
“anche l’incapacità derivante da una volontaria assunzione, deve valutarsi ai fini della sussistenza del consenso all’atto sessuale… le condizioni della vittima, pacifiche, non consentivano un consenso ai rapporti sessuali, come adeguatamente motivato, senza contraddizioni e senza manifeste illogicità”.
Insomma, per i giudici non solo l’assunzione volontaria di alcolici rientra nelle condizioni di inferiorità previste dal 609 bis, ma l’eventuale consenso manifestato in un tale stato di alterazione –autoindotto- non sarebbe rilevante ai fini della valutazione delle responsabilità. In tutta franchezza, una lettura del “sì” molto più affine al puritanesimo americano, che non alle derive reazionarie e medievaliste.
Aggravanti ed attenuanti
Ed ora, dulcis in fundo, veniamo alla più importante tra tutte le marchiane dabbenaggini che sono state dette e scritte su questa oscura vicenda: l’assunzione non provocata come attenuante. A voler essere succinti, si potrebbe sostenere che molti colleghi della carta stampata abbiano trasformato il mancato riconoscimento dell’aggravante specifica –ed il conseguente aumento della pena- nella concessione di un’attenuante, secondo un contorto ragionamento fantaprocessuale.
Basta munirsi di un qualsiasi codice sufficientemente aggiornato, senza necessariamente essersi iscritti a giurisprudenza, per constatare che l’articolo 609 ter. sancisce un aumento della pena se la condotta del 609 bis è commessa “con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti…”. Circostanza che dunque, può essere concessa solo nel caso in cui il reo abbia imposto la somministrazione di sostanze alcoliche, mediante un atto di coercizione.
La battaglia contro le pieghe propagandistiche ed oscurantiste dell’informazione contemporanea è un’attività sempre meritevole, ma l’isterismo mediatico generato da questa sentenza deve essere mandato a memoria, per non dimenticarsi di quel morbo pestilenziale che è l’editorialismo forzato: quella folle convinzione sposata da molti direttori, secondo la quale chiunque sia in grado di scrivere di qualsiasi argomento. Indipendentemente da attitudini, interessi personali o competenze.
Filippo Klement