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Perché far cantare l’inno di Mameli ad un afroamericano (che l’ha pure sbagliato)?

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La volontà di autodistruzione delle istituzioni calcistiche italiane prosegue sulla stessa strada tracciata prima dello scoppio della pandemia Covid-19.

Lungi dall’essere stato utilizzato come momento di riflessione sulle strategie discutibili adottate e sul ripensamento dello spirito e della missione della comunità calcistica italiana, la pandemia non ha fermato le istituzioni sportive, mero riflesso di quelle politiche, dalla folle corsa verso il vicolo cieco esistenziale in cui si erano catapultate.

Le lunghe trattative sulla ripartenza del calcio e le sue modalità hanno infatti fatto emergere i peggiori mostri dell’individualismo votato al profitto. Da una parte le fameliche televisioni hanno dimostrato in maniera piuttosto inequivocabile lo scranno di primo piano da loro occupato nella gerarchia del potere del mondo sportivo.

Dall’altra parte un insieme di imprenditori, vestiti da presidenti di calcio, pronti a difendere il loro orticello. In mezzo le istituzioni sportive, quelle che dovrebbero funzionare da intermediario tra gli interessi di tutti, premiando gli interessi finali degli spettatori. Invero queste ultime si sono rivelate essere dei semplici riflessi a specchio del mondo politico, con l’aggravante della palese ricattabilità subita da parte delle televisioni. E così il calcio, e lo sport in generale, si trovano a rappresentare non già gli interessi degli spettatori, ma quelli di politica e business.

Sulla totale subalternità delle istituzioni sportive

alle “regole” del mercato avevamo già scritto in merito alla discutibile scelta dell’azienda tedesca Puma, sponsor principale della nazionale italiana, di cambiare in verde il colore di una delle maglie della selezione. Ecco che questa ottusa genuflessione del mondo sportivo ai principi del mercato può portare a delle situazioni ai limiti del grottesco.

E’ il caso della finale di Coppa Italia giocata tra Juventus e Napoli allo Stadio Olimpico. La partita in questione è stata infatti introdotta dal consueto inno di Mameli, intonato in questo caso dal cantante afroamericano Sergiofeld Sylvestre. Tralasciando la performance non impeccabile del cantante, con strofe interrotte e sbagliate, ciò che salta all’occhio è l’assoluta irragionevolezza di questa scelta.

Non ci si capacita infatti di come la FIGC, che è l’ente organizzatore del torneo, abbia potuto scegliere un cantante afroamericano appartenente al mondo del rap per intonare un canto risorgimentale. In questa scelta non si può non riscontrare una profonda ignoranza storica di fondo, in particolare nella lettura e nella comprensione del testo dell’inno italiano.

L’inno scritto da Goffredo Mameli

è indiscutibilmente un inno marziale nel vero senso del termine. La strofa “siamo pronti alla morte” non è una simpatica e innocua allegoria, ma è l’espressione concreta della volontà di chi scriveva, che aveva tutta l’intenzione di usare quell’inno come carica per una battaglia vera, in cui peraltro Mameli rimase ferito a morte.

Pare quindi evidente che un rapper con tanto di catenone d’oro al collo e sopracciglio tagliato difficilmente possa interpretare il carattere marziale, guerresco e solenne di un simile inno. E’ un po’ come ascoltare il “Vincerò” reinterpretato in versione Cucaracha. Oppure come se i tedeschi sentissero il loro “Deutschland, Deutschalnd, Uber Alles” intonato dai Los Del Rio, il noto gruppo che cantò la Macarena.

Eppure la FIGC l’ha fatto. Forse per una questione di soldi. Forse per una questione politica (l’afroamericano che canta l’inno italiano nel momento delle proteste del Black Lives Matter).

In entrambi i casi l’unica cosa ottenuta dalla FIGC è stata la perdita della dignità.

 

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Di Gabriele Tebaldi

Classe 1990, giornalista pubblicista, collabora con Elzeviro dal 2011, quando la testata ha preso la conformazione attuale. Laurea e master in ambito di scienze politiche e internazionali. Ha vissuto in Palestina, Costa d'Avorio, Tanzania e Tunisia.

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