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La triste parabola della Superlega e le sue principali criticità

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La parabola della Superlega è durata meno del batter d’ali di una farfalla. Un progetto morto sul nascere, principalmente per due ragioni: l’incompatibilità con il merito sportivo e il tentativo di nascondere sotto il tappeto l’insostenibilità di determinati modelli aziendali.

 

Senza addentrarsi in sperticate, benché legittime, apologie sulla natura popolare del gioco del calcio, senza analizzare la seria minaccia per il suo connotato identitario-rappresentativo delle comunità locali e, in generale, senza voler ammorbare nessuno con sermoni nostalgici e reazionari, due appunti critici su questo scriteriato progetto di Super Lega vanno proferiti.

Il progetto propagandato in primis da Florentino Perez e Andrea Agnelli, stando alle ultime notizie, sembra essere naufragato più rapidamente di un commissario alla sanità in Calabria. Epilogo dovuto ad una molteplicità di fattori, tra i quali, oltre al decisivo ostracismo delle istituzioni (politiche e calcistiche), va annoverato anche il fermo e trasversale diniego dell’opinione pubblica.

Ed è proprio su quest’ultimo punto che vale la pena interrogarsi.

Perché mai la eterogenea base di appassionati, da sempre divisa in modo piuttosto manicheo tra progressisti e romantici, ha raggiunto un livello di compattezza tanto inusuale? La risposta risiede proprio nei due appunti critici sopracitati.

Il primo riguarda naturalmente il criterio meritocratico a proposito del quale, negli ultimi giorni, diversi opinionisti, dirigenti e membri della stessa categoria dei calciatori si sono concentrati hanno concentrato le loro perplessità. In questo caso non sussiste alcun abuso di retorica, hanno perfettamente ragione: la formula alla base della Superlega rappresenta la nemesi del merito sportivo.

Accettare una competizione in cui si garantisce la partecipazione perpetua ad alcune squadre, sulla base di un diritto divino che consente loro una totale immunità rispetto al reale valore delle prestazioni agonistiche, è inaccettabile: proprio perché la prima cosa a venire meno, sarebbe il concetto stesso di competizione. Che razza di torneo sarebbe quello in cui chi perde non può subire conseguenze?

E qui veniamo al secondo punto,

causalmente interconnesso con il primo. La ragione di questo format elitario, con le 12 privilegiate nel ruolo intoccabile dell’aristocrazia all’Assemblea degli Stati Generali, non riguarda la disaffezione dei vecchi tifosi; non riguarda lo scarso appeal verso le nuove generazioni; e non riguarda nemmeno il presunto squilibrio tecnico tra i top club e le medio-piccole.

L’unica ragione di questo progetto snob e classista, è esclusivamente la disperata ricerca di una sopravvivenza economica; sopravvivenza che la partecipazione inderogabile garantirebbe, attraverso l’annuale abbeveramento alla lauta sorgente di denaro (3,5 miliardi da spartirsi tra le varie concorrenti) alimentata da J.P. Morgan.

Qui la distorsione e la presunzione del ragionamento si fanno davvero interessanti. In pratica, i dirigenti che hanno finanziato interamente le loro gestioni in deficit e trasformato le loro società nei club più indebitati d’Europa, come si conviene ai rampolli disabituati al rispetto delle regole, cercano di eludere il problema anziché risolverlo.

Loro, di fronte alla montagna di debiti contratti per assecondare un mercato anarchico ed un modello aziendale insostenibile, che tipo di ripianificazione propongono per sanare i loro eccessi e invertire la rotta dissennata intrapresa dal mondo del pallone?

 

Ammortizzare i costi abbattendo le faraoniche commissioni agli agenti?  Imporre un tetto agli stipendi milionari dei calciatori? Formulare un fair play finanziario autentico, rigido e non quel corpo di regole applicato dalla UEFA al solo scopo di elargire minacce che ne abbellissero l’immagine?

Niente di tutto ciò.

Questi personaggi, che in un normale contesto imprenditoriale sarebbero stati defenestrati in sede di approvazione del bilancio, propongono un’altra cosa: poter attingere da una mangiatoia più ricca ed inaccessibile, di modo da poter continuare a spendere come prima o, qualora necessario, più di prima. Mentre il resto del calcio muore nel silenzio.

Due criticità irricevibili ed indifendibili, di fronte alle quali passano perfino in secondo piano alcuni paradossi legati alla storia – più o meno recente – delle partecipanti. Come le deficitarie performance europee di alcuni club (Juve, Inter e Milan), gli zero nella casella Champions League conquistate (Manchester City, Arsenal e Atletico Madrid), o addirittura la mancata vittoria di un campionato nazionale da 60 anni (Tottenham).

 

di Filippo Bacino

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